Parole dell'autore |
Te ne rendi conto da una sensazione leggera, quasi impercettibile, che ti accarezza le mani. Quasi un solletico. Vorresti avere un foglio bianco, una penna, qualsiasi cosa buona a ricordare, mentre accade quel che sta accadendo, mentre certi occhi ti guardano, certe voci ti parlano, certe atmosfere definiscono percorsi interiori che hai folle paura di perdere, smarrire.
A me tutto questo è successo su un treno, di notte. Un uomo piccolo, esausto. Due occhi infiniti.
Parlava come acqua che tracima. Come fiume che esonda.
E quelle parole erano semi, erano frattaglie di vita, schegge di qualcosa di incredibile che ci riguardava tutti, che riguardava anche me. Per un motivo semplice: Giuseppe parlava di come a volte il passato non abbia la forza sufficiente a passare. Di come resti. Di come diventi presente, e anche futuro, giorno dopo giorno. Di come si avvinghi alla vita, e se ne nutra, parassita, inibitore, grandinata improvvisa che azzera di tanto in tanto ogni ricrescita.
Mentre parlava pensavo a me, alla maggior parte delle persone che conosco. Pensavo a quanto sia difficile accettare che il passato passi. E che a restare spesso sono ricordi, spesso nemmeno.
E ho saputo da subito che ci avrei scritto qualcosa. Ho pensato spesso a quanta gente incontriamo, a quante storie muoiono, a quante storie dimentichiamo. E per paura di farlo ho scritto il suo nome – Giuseppe Artone – sul blocchetto che tenevo in tasca, come se il nome, quel nome, contenesse tutti i paralleli e i meridiani che aveva visitato, e le sue lacrime – tutte, una per una – e i sorrisi – quelli belli, quelli falsi, quelli incompleti – e le speranze tenute strette strette per non svilirle al sole, o al freddo, o al buio. Quel nome avrebbe dovuto ricordarmi tutto. Invece poi non è bastato. Ma questa storia è stata scritta lo stesso.
Perché esistono incontri che sono già storie. Non puoi farci nulla. Devi solo accettare il rischio di raccontarle.
Provarci è un dovere. Riuscirci un miracolo. |