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La distanza tra due lacrime

E improvvisamente capita che ci si immobilizzi.

Mi viene in mente un uomo in corsa, che ripone il fiato per usarlo al momento giusto, che aspetta quella corsa da una vita, per dimostrare che si è allenato bene, che ha imparato a dosare le forze, a risparmiarle e direzionarle verso l’unico obiettivo possibile.

Avverto una pesantissima stanchezza di esistere. Che non è noia, non è apatia, non è nemmeno demotivazione o disincanto. E’ stanchezza, Pessoa la chiamava così. Quella stanchezza che lo spingeva a passeggiare senza metà, con gli occhi fissi a terra, alla ricerca di un senso che non c’è, perdendosi nei meandri di un’esistenza che non lascia spazio a compromessi. Di un’esistenza che non c’è bisogno, quasi, di percorrere, perché basta osservarla da lontano, magari da una finestra, giù, sotto, dove gli uomini brulicano di movimento e non si rendono conto, o solo in parte, che esistere non è muoversi, fare, andare.

Parlo di una sensazione limitante. Come una bolla d’aria sul cuore. Che forse ha il senso di far trovare i giusti slanci per ripartire, forse invece è necessaria perchè umanizza le giornate a ritmi disumani, o forse serve per stare un po’ in bilico su certi dirupi e poi tornare indietro. In fondo, è bene non dimenticarsi che nei dirupi ci si può finire dentro. E che sono lì, senza fine. E che siamo fortunati a vivere la vita che viviamo, qualunque essa sia, perché vivere è già una fortuna, non so. La butto lì.

A volte hai dubbi sulla strada che stai seguendo. Sarà quella giusta? Quella in cui siamo davvero in grado di esprimerci al massimo? Oppure è una strada che ci è semplicemente capitata, un caso?

In questi giorni mi è stata rivolta questa frase da molte persone, estranee tra loro, che si interrogavano su come si giunge da qualche parte, perché, e se è il posto migliore dove ritrovarsi. C’è una sorta di ansia dilagante, ansia di definirsi, ansia di sbagliare strada, ansia di aver rimpianti. C’è, improvvisamente, alla mia età la percezione che non si ha più tempo sufficiente per fare tutto. Non si ha più la possibilità per dire “intanto faccio questo, poi vediamo…”, perché intanto il tempo passa.

C’è la sensazione, tra l’altro espressa splendidamente, che il sorriso non sia altro che un gesto che copre la distanza tra due lacrime. La vita sta nella distanza tra due lacrime. Visione pessimista, o forse realista, o forse necessariamente cruda. Chissà. Sta di fatto che quando si ha a che fare con questo tipo di stanchezza non serve a nulla mettersi a letto a riposare, né vedersi con le persone care, o andare a ballare, o fare qualunque cosa.

Bisogna saperci convivere e aspettare che passi, come quando c’era una canzone non proprio bella su una cassetta musicale, qualche anno fa. Non conveniva mandare avanti, rischiavi di mangiarti anche un pezzo della successiva. E allora aspettavi, che tanto dura tre minuti appena.

Questa stanchezza non dura così poco, e non passa così in fretta.

Si annida nel cuore e a volte, pensate, è persino positiva. A volte, ispira. E se la distanza tra due lacrime è la vera vita, allora bisogna cercare di piangere solo quando ce n’è bisogno, il meno possibile. Così la vita che ci avanza è senz’altro di più. E con essa le opportunità di viverla intensamente.

A presto,

Roberto

P.S.
Un abbraccio a Clelia, che tra due lacrime deve decidere la strada maestra.
Un abbraccio a Sara, che tra due lacrime si ritrova zia e forse riuscirà a trascurare per un attimo gli incomprensibili algoritmi del cuore.

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