Acquedotti e malinconia
Penso a quella sera e penso alle parole.
Penso alle briciole e penso a quel che resta delle briciole quando le raccogliamo e le buttiamo via. Un ricordo? Un ricordo di briciole? Penso a quanto sia giusto, lecito, corretto, lasciar sedimentare sensazioni prima di parlarne, di scavicchiarsi il cuore, poggiarlo su un foglio fertile, all’attenzione del mondo. Un po’ come una scritta maiuscola sull’asfalto sotto la finestra di casa tua, un po’ come un mazzo di rose senza mittente recapitate al tuo indirizzo.
Penso a quel che si è in mezzo a un campo di erba bagnata, con le spalle curve sotto il peso dei ricordi che ancora non si è avuto modo di vivere insieme. Penso a quel che resta se improvvisamente si cambia discorso, si passano addosso mani come stracci a lavar via solitudini. E si ricorda che si è in grado di volersi bene.
Penso alle unità di misura che non valgono più, divengono fuoricorso. Penso agli amici che si hanno, da un’altra parte, alle loro espressioni tipiche, alla loro idea sciocca che l’amore è quanto di più utile per combattere la solitudine. Penso che la solitudine e l’amore troppo spesso siano sinonimi, e troppo spesso si fa finta di saperli separare, ma c’è confusione, e quando c’è confusione è meglio lasciar perdere. Parlare d’altro. Parlare d’amore.
Parlami d’amore, allora.
Penso all’umidità che forse era lì per noi, alla nebbiolina che non lasciava spazio a certezze, solo a indovinate malinconie, solo a futuri già trascorsi nell’attesa di trascorrere. Solo a vite già vissute, ancora da vivere. Penso a tutto ciò che abbisogna di un nome, a tutto ciò che si appella in un modo e così gli si dona un’anima. Penso a Quando torna, penso a quando torni, penso a Roma in ciabatte e in abito da sera, e a quel che rimane addosso e non va più via.
Penso ai profumi, penso alle strade sterrate e illuminate da chissà cosa. Penso a tornare, penso a restare, penso ad andare.
E penso che c’è un filo, rosso, che collega due anime, non importa il sesso, il sesso le anime nemmeno ce l’hanno. Importa che a tirare da una parte si sollecita qualcosa. A tirare da una parte ci si avvicina.
Penso al viversi. Al viversi per vivere. E penso allo sciogliersi come neve al sole della casualità, al sole della coincidenza. Coincidenze. Già, coincidenze. Penso alle strade a doppio senso unico, ai caffè rimasti nel diffusore. Alle gioie rimaste dentro la pelle, rinchiuse come fiere selvagge in gabbia. Penso all’acquedotto, alla malinconia. E penso che non ne esiste solo una di malinconia, non prendiamoci in giro. Esistono tante malinconie quante sono le persone di cui ne abbiamo.
E penso a Giorgia, Claudio. A loro che sono fermi, lì, da mesi, in attesa di amarsi ancora e mi sento misero. Penso allo sfiorirsi lento, pallido, che merita un finale. Che l’avrà. E l’avrà per quel sorriso che dice di andare. Quel sorriso che dice di andare. Un sorriso non immobilizza mai.
Penso agli acquedotti, chissà perchè. Al luogo che fa tornare tutto come deve. E penso che la malinconia passa sotto quegli archi come vento, come grida, come profumi. Penso che l’amore sia così, pieno di buchi, ma in piedi per millenni.
E credo, stavolta credo, che sia opportuno fermarsi. Sia opportuno ascoltare. Sia opportuno stupirsi. L’inconsueto va accettato, forse temuto un po’. Senz’altro vissuto. E va alimentato, va sfiorato, va avvertito che il rischio è grande ma la posta in gioco di più. Credo occorra capire, poi non c’è più ragione. Capire.
Non so perchè un libro iniziato con impeto poi si lascia a metà. So che un libro iniziato con impeto e lasciato a metà può all’improvviso esigere un finale. Esigere un percorso chiaro e una carezza pulita. Esigere dimensione. Esigere puntualità. E di fronte all’esigenza di chi o di ciò che si ama non esistono no.
Come nella vita.
Roberto