Quello che sanno di noi
Di me sanno che scrivo.
Sanno che all’improvviso la testa mi ha chiesto parola, il cuore pure, e mi sono messo davanti a una tastiera a ticchettare, quasi inconsciamente, quasi follemente. Che il giorno prima scrivevo sì, ma la lista della spesa, l’elenco di chi gioca a calcetto stasera, un tema, una lettera a un amico lontano, e il giorno dopo, invece, l’idea malsana di cimentarmi in una storia.
Più o meno si immagina questo. Ma cosa c’è dietro la decisione di raccontare, e in un certo senso raccontarsi? Perché? A chi? E come? Ecco, fondamentalmente sono tappe di vita, più che di scrittura, più che di dolore, più che di gioia, più che di altro. Sono tappe che a ritroso non si possono distinguere nettamente. Né comprendere. Ci si ritrova da qualche parte e amen su come ci si è arrivati.
Ma cosa sanno gli altri di noi? Cosa sa chi ci tagga in una foto? Chi ci aggiunge ad un elenco di amici e chi ci manda sms di auguri a Natale? Cosa sa, chi ci ama o dice di amarci, su ciò che ci passa in testa al mattino, appena apriamo gli occhi a un giorno nuovo?
Tutto questo mi inquieta, mi spaventa, mi immobilizza. Cosa sanno gli altri di noi? E quanto nella loro percezione siamo davvero noi e non piuttosto quel che loro ci immaginano? Io scrivo, per gli altri sì. Di me sanno che scrivo. Mi alzo la mattina alle 7, arance spremute e plumcake, caffè con mezzo cucchiaino di zucchero di canna e via. Fogli e fogli di parole, fino alla pausa pranzo, mezzora appena, e poi ancora, scrivere scrivere scrivere. Più o meno si pensa questo.
Di me sanno che scrivo. Ma chi sa che cosa penso, cosa sogno, cosa amo? E cosa mi lascia insonne la notte e quanto colore vedo nel futuro mio, del mondo, delle persone in cui credo fermamente? Siamo un popolo di perfetti sconosciuti, e siamo intrecciati da causalità univoche e etichette sciocche. Di me sanno che scrivo.
Sì, scrivo. Ma vivo. E le due attività mi sembrano connesse. Inscindibili. Scrivo per vivere, e vivo per scrivere. E lavoro, e studio e leggo e corro dietro a un pallone e mi perdo nella trama di un film, guardo le nuvole e ci immagino cartoni animati, e frequento persone e viaggio e corro e dormo, vado persino in bagno, talvolta non digerisco, ho mal di schiena, già a 27 anni, che certe sere non riesco a prendere sonno. E vivo. Imparo a memoria le canzoni che amo, non impazzisco per il mare, e tollero sempre meno i luoghi chiassosi. Insomma, scrivo, scrivo e scrivo, ma anche altro.
Di me sanno che scrivo. E questo mi rende felice. Perché sto cercando nelle parole una dimensione che mi conduca sempre più dentro me stesso, scrivo fuori per conoscere dentro. Una cosa del genere. Ed è sicuramente uno degli aspetti che più coltivo nella vita. Però c’è altro, c’è una pizza con mozzarella di bufala e pachino, qualche foglia di ruchetta, e un goccio d’olio d’oliva, da mangiare in una trattoria nei dedali di Napoli, o un bicchiere di vino a casa mia, a due passi da Roma, un buon thè ai frutti di bosco. Uno stadio, un concerto, una passeggiata, fotografie, amore, gioia, sorrisi, lacrime, schiaffi, spinte e risate a squarciagola.
E a questo punto mi viene da chiedermi quanto io percepisco degli altri. Quanto sono abile a distinguere l’attività preponderante di qualcuno, con la sua vera e multidimensionale personalità. Forse sono il primo a considerare il disegnatore, l’informatico, lo sportivo, l’editore, il giornalista, il collega, il musicista, prima delle loro anime e dei loro essere. Ci valutiamo per ciò che facciamo, per ciò che realizziamo, non per ciò che siamo veramente. E ci illudiamo di conoscerci, di frequentarci, di starci accanto. In realtà siamo contenuti di cassetti mentali altrui, vittime del nostro stesso fare.
Di noi sappiamo cosa facciamo, cosa raggiungiamo. Obiettivi come segni particolari di una carta d’identità immaginaria con cui ci presentiamo agli altri, per dire chi siamo. E sanno di noi solo ciò che facciamo. Mai cosa proviamo sotto la coltre della nostra pelle. E non siamo amici, siamo compagni di viaggio, forse. E rimarremo vicini di posto sulla metropolitana, uno dietro l’altro in fila alla posta, o alla cassa del supermercato, o colleghi per sempre nello stesso grattacielo. Avremo una lista di amici lunghissima, Facebook zeppo di commenti e di gente che ci cerca per dirci nulla, la rubrica del telefonino che esplode. Ma il citofono sempre più silenzioso e le serate sempre più caratterizzate dalla solitudine.
Chiaro, non si può essere intimi conversatori con tutti, né confidenti del mondo, però occorre riportare in alto il livello più basso (ma non inferiore!) dei rapporti umani. Il substrato di ogni rapporto sincero, quello che si trova sotto l’estetica, l’avere, il dimostrare, l’apparire. Quello che siamo veramente, oltre ciò che sembra. Almeno con le persone che amiamo, almeno con loro.
Passo necessario e imprescindibile per tornare a condividere veramente le nostre esistenze.
Roberto