Hanno detto,  Quando torna

L’intervento critico di Marco Onofrio (Castel Sant’Angelo, 14.07.08)

Quello che segue è l’intervento che Marco Onofrio ha fatto alla presentazione di Quando torna che si è svolta il 14 di luglio a Castel Sant’Angelo, in occasione del prestigioso appuntamento con Letture d’estate, rassegna letteraria e culturale che abbraccia tutta l’estate romana.

Lo riporto integralmente, nonostante sia molto corposo, perchè solo nella sua interezza è completo e lascia a Marco Onofrio la possibilità di analizzare come ritiene più opportuno il mio secondo romanzo.

Ringraziandolo ancora per quanto scritto, avviso i lettori che il rischio, per chi non avesse letto il libro, è che vengano svelate anche parti importanti della trama e della storia.

Roberto


QUANDO TORNA di Roberto Pallocca

Quando torna ci riporta all’idea di romanzo come specchio di vita: patchwork di frammenti ricuciti in trama robusta, di tessuto organico e coerente.
La scrittura come ri-composizione dell’esperienza, come salvezza del tempo ritrovato.

Certi romanzi sembrano cialde di cono senza gelato; qui invece il ripieno c’è: fresco, variegato, saturo di senso e di sapore.
È un libro per molti versi ascrivibile alla categoria che Roland Barthes definisce dei “testi di piacere”: piani, lucidi, regolari, in cui tutto è indagato, chiarito e manifesto ­­­– fino ad ogni piega del discorso: i testi in grado di soddisfare l’orizzonte di attese del lettore, il quale poi infatti avverte in se stesso una sorta di “sorriso interiore” che lo illumina e che, a lettura conclusa, lo porta a riconoscersi trasformato, un passo più in là di come era prima di iniziare.

Ci sono in Roberto Pallocca due anime creative che si tengono per mano, cooperanti al punto di annullarsi; così intimamente unite da respingersi, talvolta: come due amici, che non sono veramente tali se qualche volta non litigano. La tensione del “puro narratore”, che racconta/descrive (dando voce ai personaggi che ha creato);  e quella analitica e metaforizzante del “pensatore-poeta”, che riflette man mano su ciò che lì’altro di sé sta sviluppando, ispezionandone la trama al microscopio e concretandone il senso profondo in sentenze gnomiche e immagini icastiche, dense e dire come cammei, fatte apposta per essere ricordate.

Lo scrittore, in effetti, è continuamente attratto da questa dimensione di “memorabilità”: vuole fermare e, appunto, rendere degno di ricordo, cioè di riflessioni e levitazioni interne successive – in controcanto rispetto alla voce principale che racconta – ciò che, altrimenti, gli sembra destinato a bruciarsi e scomparire, inghiottito nella dinamica stessa del tempo narrativo. Dipinge superfici ma pesca in profondità. Ha una vocazione aforistica da coltivare.

Quanto torna è una storia, “che come tutte ne contiene tante altre, tanti colori, che non possono essere colti da uno sguardo solo”. Una struggente storia d’amore: un percorso che si snoda attraverso tante direzioni diverse, all’incrocio dei piani temporali: il passato che riemerge dal presente, in flashback, e il futuro immaginato dal passato, riportato in superficie a confrontarsi con il presente, quindi a misurarvi lo scarto e lo scacco, quasi inevitabili.

Fernando Zelante, tranquillo ottantenne romano, sposato con Caterina, riceve dall’America una lettera a Rossana Winsler, suo vecchio amore di sessant’anni prima. È il potere epifanico della scrittura, densa di memoria, cioè d’infinito – sia pur racchiuso nello spazio limitato di una vita. Quella lettera lo catapulta all’improvviso in un passato di cui, benché lo abbia faticosamente superato, esorcizzandone il dolore, conservava inconsapevolmente ogni immagine, ogni dettaglio, ogni sfumatura. È una bottiglia che si apre o, meglio, un ingorgo fitto che si scioglie: riemerge un oceano di tempo interiore, nascosto tra le pieghe dell’esistenza: sessant’anni di istanti metabolizzati ma tutti presenti e vivi, invisibili ma pungenti, capaci di quella dolce, ineffabile trafittura che toglie il fiato, come un colpo al cuore, “quando torna”. Che cosa? Il tempo, il destino, il senso più profondo delle cose.

Prima questione: la dicibilità della memoria. E anzitutto: dove vanno a finire i giorni, gli attimi trascorsi? Si annientano nel vuoto o ci aspettano da qualche parte, nascosti in un “solaio universale”? Li rincontreremo? Ci verranno a trovare? E poi, anche a ritrovarli: è possibile dare udienza cioè veicolare nell’esperienza del tempo, ad ogni singolo istante del passato? Come far fronte alla sua infinita complessità? Come dire l’indicibile? Il tempo è acqua che sfugge dalle mani: acqua preziosa, in pieno deserto.

La lettera di Rossana, ovviamente, si legge solo alla fine del romanzo. Che dunque è un percorso di memoria, all’interno della vita e dell’anima di Fernando: il percorso narrativo che va dalla ricezione inattesa della lettera alla sua apertura/spiegamento/lettura. Un percorso di ricordi e di echi emozionali che riemergono: altrettante occasioni di approfondimento-analisi dell’esperienza umana e del suo significato universale. I ricordi, scrive Roberto Pallocca, “sono vittime in fila al patibolo del tempo, la memoria una mamma disperata che chiede pietà, e il tempo un boia crudele che non risparmia nessuno”. Alcuni ricordi sono come vulcani che, sorprendendoti, riaffiorano e zampillano dalle interiorità della memoria, “e non si può mai esser pronti abbastanza per scampare a certe eruzioni”: come quella innescata in Fernando dalla lettera di Rossana.

La vita, densa e ruvida, dolce e crudele, autentica e vana_ emerge per sottile emanazione, in chiave emblematica, nella densità infinita dei suoi infiniti significati. C’è tanto, della vita come è, della vita che ci rende come siamo. Possiamo specchiarci, possiamo conoscerci. Con le domande a scatole cinesi, una dentro l’altra; con le risposte sottese e sospese, con le questioni in fondo irrisolvibili.

È un tessuto denso di semi esistenziali.

C’è innanzitutto il lavorio del tempo che passa e che trasforma tutto quanto, anche i sogni. La vita è un inseguirsi vano di progetti e sogni che si sgretolano lentamente. Inesorabile fato di morte: tutto è destinato a finire.

E c’è il destino, la forza che intride e orienta il corso di ogni cosa, anche quelle più piccole (non solo il movimento dei pianeti): la ragione profonda che sorregge la realtà. Lo facciamo noi, con le nostre mani, o va per conto suo? Forse “ha già scelto la nostra rotta e ci lascia in mano solo un timone sconnesso dalla nave”. I conti del destino non scadono: i debiti si pagano sempre, prima o poi. Il destino sa aspettare: “ha la pazienza di un castoro che costruisce una diga continuamente disfatta dalla corrente”.

E c’è la tremenda responsabilità della scelta: ogni scelta implica la rinuncia alle altre possibilità: ad ogni mossa cadono migliaia di pedine, giacché la vita è una filiera di potenzialità che per lo più si escludono a vicenda, collegate in reazioni a catena. Il percorso è, per molti versi, irreversibile: “quel che si perde lungo la strada della vita è perso per sempre”. Il tempo perduto non ritorna più: e affrettarsi non consente di recuperarlo. L’esistenza è un cammino lineare segnato da incroci unici, che non si ripresentano: le strade, una volta imboccate, non si possono percorrere a ritroso. Si procede senza appigli,e il senso delle cose si capisce, purtroppo, solo che non ci sono più.

Fra tutti, poi, c’è il bivio maestro, legato ad un rimpianto decisivo: daresti la tua vita per poter rivivere quegli attimi, da cui discende tutto quel che sei (o che non sei diventato).

Eppure a volte la vita ci dà un senso di miracolosa ciclicità, di “tempi circolari” segnati come anelli sopra il corso lineare del destino: ci sembra che tutto ritorna, che “ogni verità è curva”, come l’amore. Ci sono ad esempio certi appuntamenti a cui non si può mancare, perché chiudono un cerchio aperto tanto tempo prima (anche decenni): quando la linea dell’esistenza si incurva e diventa circonferenza, contenitore stesso del suo senso. Come accade a Fernando quando riceve la lettera di Rossana.E c’è la duplicità fondamentale di ogni cosa, che è se stessa e insieme il suo contrario: per cui, sul confine del tempo, nel potere creativo/distruttivo dell’istante, ogni fine nasconde sempre un principio ­­– e viceversa.

E c’è il valore insostituibile dell’esperienza: talvolta ad esempio, per capire davvero la profondità dell’abisso, l’unico modo è finirci dentro. Cioè: non basta teorizzare, pensare o immaginare qualcosa: occorre fare per comprendere, assaggiare per conoscere, essere per avere.

E poi. Naturalmente, c’è l’amore, questa intensificazione esistenziale del tempo che rende ogni cosa unica, sublime, eccezionale: l’amore che rende bambini e fa maturare come nessun’altra esperienza: l’amore che ci trafigge e ci rivela quale nuda verità, dal momento che è – come scrive con parole memorabili Roberto

tutto ciò che si ricorda dopo aver dimenticato. Tutto ciò che si è, in una stanza vuota. Tutto ciò che si ha, quando si è nudi.

L’amore è un riparo che non ha ripari: esposto, come la vita tutta, al dramma incombente, e al corso imprevedibile del tempo. Nessuno può sapere o dirci che cosa ci riserva la prossima curva. Forse neanche Dio lo sa. Ad esempio la fine improvvisa di Luciano, il padre di Fernando, che muore sul lavoro, in cantiere, precipitando dal quarto piano di un palazzo in costruzione. La “banalità del male”, che si nasconde in un “giorno qualunque”: proprio quando meno te l’aspetti.

Ed ecco, ancora, le irruzioni della Grande Storia nel tessuto della vita quotidiana (Quando torna tradisce anche un lodevole sforzo di ricostruzione storica): la propaganda fascista, i discorsi del Duce, l’arrivo di Hitler in visita a Roma, l’alleanza militare con la Germania, le vergognose leggi razziali del ’38, la conseguente “bonifica culturale”, giù giù, inesorabilmente, dentro un gorgo fatale e progressivo per cui tutto diventa man mano “più grande dei singoli uomini” – da cui la domanda: può da solo, un uomo, cambiare il mondo? Può salvarlo? È possibile fermare l’onda del mare con mano? E di nuovo: siamo noi a forgiare il destino o è il destino a forgiare noi?

Se il tempo non dà ripari al rischio dell’irreparabile, bisognerebbe allora scrivere sempre a matita il nome di chi amiamo, sul nostro cuore: per tutelarci dal tempo e dal destino: anche l’amore, proprio per questo, esige persistenza e sicurezza, illusione e persuasione di durata, se non di eternità: non sa godere l’oggi senza un domani. Occorre di garanzie: deve esorcizzare il proprio addio. Ecco perché, malgrado tutto, ci si sente al riparo: “ si pensa sempre che certe cose possano accadere solo agli altri, a noi mai. Finché non si è costretti a raccogliere cocci”.

E c’è l’amore di Fernando e Rossana, rivissuto a distanza di sessant’anni: si incontrano a scuola, perdendosi, e incontrandosi finiscono per perdersi: persi dalla Storia nell’appartenersi contro la Storia. Scoprono subito il viale degli aranci con le panchine di legno: diventa il “loro” posto nel mondo, l’isola felice. Si innamorano ogni giorno di più. Vivono la magia del primo amore. Il “filo che collegava i loro occhi era chiaro solo a loro due”: gli occhi “pieni del viso dell’altro”. Si piantano un seme nel cuore, ciascuno nel cuore dell’altro, perché fiorisca, perché lo renda giardino soleggiato. Due ragazzi ai bordi di un amore, bocciati inconsapevolmente al mistero della loro vita: che tuttavia non è grande abbastanza per contenere un sentimento così, letteralmente incontenibile.

Sono simili, ma in fondo anche diversi: Rossana, figlia di un corrispondente americano, è una ragazza spigliata, vivace, libera dentro: insofferente di quell’Italia provinciale, blindata nel pensiero e imbavagliata; Fernando è un ragazzotto ingenuo, invischiato suo malgrado in un polpettone di idee e di retorica – alimentato dai discorsi dello zio Filippo, fascista convinto. C’è proprio una differenza di mentalità tra le due famiglie d’origine. Un giorno, ad esempio, tornano a casa sotto un acquazzone estivo, fradici. Priscilla accoglie il figlio Fernando con un “Dove sei stato?”; Maria accoglie la figlia Rossana… con un asciugamano, e le chiede: “Ti sei divertita?”.Rossana odia l’indifferenza delle persone. Gli italiani non oppongono resistenza: “erano tutti con gli occhi socchiusi su una realtà immobile, incantata, plumbea”: nessuno si domandava il perché delle cose. Fernando rappresenta, in giovane età, l’italiano medio di quegli anni (e non solo): addormentato, conformista, privo di acuta consapevolezza.  Il suo, quello che intraprende con Rossana, è un percorso di crescita umana, cioè di approfondimento dello sguardo, della coscienza, delle capacità critiche, dei modi di leggere la vita e la realtà. Anche lui, grazie a Rossana, comincia a maturare la sua America personale come metafora di vita, di speranza, di libertà. Il loro posto è lì, ogni giorno, sulla panchina del viale degli aranci, a “darsi l’America”: cioè a confrontarsi, crescere, parlare della vita, a scambiarsi parole baci tenerezze: a limarsi l’anima. Il porto dove ritrovarsi e toccarsi per esistere e darsi conferma,e ripararsi dal mare in tempesta. E quel sapore dolceamaro delle arance: “dolce e acre insieme, come tante altre cose, nella vita”… poi, dalla panchina, si passa allo spazio chiuso e intimo del casello ferroviario, dove Fernando ha cominciato a lavorare e Rossana certe volte lo raggiunge: diventa la loro piccola casa abusiva, il recinto dei loro sogni, la loro alcova improvvisata. Lì dentro, tra quelle quattro mura, vivono la loro prima esperienza sessuale. È un deliro di gioia e tenerezza.

Scrive Roberto – altra metafora stupenda: “Quell’amore era una farfalla, libera, a tutta velocità verso una ragnatela. La ragnatela della storia”. Un amore contro la guerra: un amore falciato dalla guerra, uno dei tanti.

Ed ecco, con la dichiarazione di guerra che si approssima, la paura di perdersi e il desiderio sempre più prepotente di aversi, di dichiararsi amore, di appartenersi per l’eternità. Il presente in pericolo porta con sé la struggente malinconia di un futuro insieme che già manca. Diventa quello che un amore non tollera mai d’essere: un amore a tempo, con la clessidra piantata in mezzo al cuore. Il 1° giugno 1940 Rossano tornerà in America: che significa spezzare quell’abbraccio con un divario oceanico e, soprattutto, saperlo già da prima, con il conto alla rovescia verso “il” giorno che si avvicina. Un giorno maledetto, cerchiato di nero sul calendario.

Ma Rossana decide di vivere quell’amore anche senza più ripari, fino all’ultimo istante: di assaporarlo con la coscienza dell’ultima volta: di vivere in anticipo i ricordi, memoria triste del futuro: sapere che “quei giorni sarebbero diventati ricordi che avrebbero portato dentro per sempre”. Per arrivare poi alla suprema consapevolezza umana che non c’è mai amore sprecato: che pure un amore destinato a finire ha comunque senso d’essere stato vissuto.

Ed ecco, infine, straziante tremendo inesorabile, l’addio:

un abbraccio. Le braccia che non vogliono sciogliersi, ma devono. L’ultimo bacio. Le labbra di acido e miele.

Rossana parte. Le promesse di non perdersi, malgrado la distanza e la guerra, sfumano pian piano dentro il vuoto. Abissi di vuoto dentro quell’abbraccio che si è sciolto. E poi il rito esorcistico della scrittura, di cui Fernando riempi interi diari. Anche se poi, inevitabile, arriva il punto in cui non basta neppure la scrittura; in cui, anzi, occorre uccidere il ricordo con la realtà, se il ricordo, a sua volta, non ha la forza di uccidere la vita – e non ce la mai fino in fondo. Coprire i ricordi di vita, di altre cose, di nuove cose: erigere muri invisibili. Fernando smette di scrivere, conosce Caterina, la sposa. E così i ricordi “annegano come petali di margherita in un secchio di vino”. E qual è l’istante in cui davvero ci si perde? In cui si comincia a dimenticare? Il passaggio critico, la soglia, la frattura.

È proprio sulla frattura del tempo sospeso che poi torna, su questa sconnessione dei piani esistenziali, che Roberto Pallocca ha saputo abilmente radicare la sua scrittura – acuta, lucida pungente – orchestrando questo romanzo di potente introspezione e di grande valore umano che mi pare a tutti  gli effetti la conferma di un autore talentuoso e in rapida crescita, al quale auguro di cuore un futuro radioso e meritato di successi.

Marco Onofrio

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