Quando si torna
Quando si torna è sempre un giorno qualunque.
Magari inaspettato, dopo attese di una vita. Con l’unica cruciale differenza che quel giorno il ritorno non era atteso, ma quasi disperato, quasi dimenticato. Invece ci si incontra, e si resta, si resta a parlare. Si inizia a restare.
Eccoci, Fernando. Ciao. Ciao, come va?
E come può andare? Bene, sempre bene finché si vive.
Che risposte che dai Fernando. Che risposte. E poi racconti quello che non basterebbe un altro libro a raccontare, controlli le lacrime come fossero bassi di uno stereo che suona jazz. Racconti nostalgie e presente, come se fossero della stessa pasta.
E in mezzo a quelle tue parole, trascinate dal tempo che hai passato su questo mondo, io comprendo di dover tornare. Di dover tornare dove ti ho conosciuto, dove strusciavi il tuo passo ballerino senza minimamente immaginare quello che la vita, il destino, la storia avrebbero combinato nella tua esistenza. Di tornare in mezzo a quell’odore acre di arance, a quel viale con l’infinito sotto.
Così, dopo una mattinata passata a ricordare, dopo una mattinata di parole, prendo la macchina e vado dove invece le cose sono accadute. Lassù, dove il viale col giardino degli aranci c’è ancora, incurante del tempo che passa, a testa alta contro l’eternità, come i ricordi più belli. Guardo il cancello aperto, passo sotto il portone di cemento, che di notte è chiuso, per preservarsi dai vandali e dai malintenzionati, ma che adesso è spalancato, perché chiunque può nutrirsi di questa atmosfera sognante e sospesa.
Non c’è nessuno, solo una sensazione vischiosa nell’aria di pesantezza profonda. Solo ricordi più ingenui di un bambino, così illusi di sopravvivere alla fine. E ci sei persino tu, quassù, la tua gioia, i tuoi sorrisi, quei baci che derubano di fretta il senso dei ritorni. E c’è quella panchina di cemento, dove adesso giocano due bimbi, che magari un giorno si ameranno come vi siete amati tu e Rossana, con quella semplicità dilagante, che invade il cuore e lascia poco altro da respirare.
Non c’è nessuno, solo un triciclo di legno, appoggiato sulle scale che portano al belvedere. Un triciclo che inquieta. Un triciclo senza un bambino vicino, come parcheggiato una volta che si è cresciuti, e dimenticato lì. E mi chiedo quante cose dimentichiamo del nostro essere bambini. Quante ne dimentichiamo proprio lì dove siamo stati bambini, poi ragazzi, adesso uomini. Lì dove abbiamo amato, dove abbiamo pianto, e dove abbiamo sperato che i dolori della vita non ci avrebbero mai riguardato davvero.
E c’è silenzio. Nei luoghi splendidi c’è sempre silenzio. Ma questo luogo chissà quante storie ha da raccontare. Chissà quante. Che se potesse parlare ci riempirebbe la mente e il cuore.
Tornare qui è un sentore sublime. Tornare qui è nostalgia e speranza insieme. E fa riflettere immancabilmente su quanto siano mescolati luoghi e ricordi. Su quanto un preciso punto del mondo sappia condurci all’interno di labirinti emozionali che capiamo solo noi. Luoghi e ricordi, sottobraccio, insieme.
Adesso mi piace pensare che quando si torna, si torna sempre con amore, perché quel ritorno lo smuove un sentimento. E mi piace pensare che chiunque abbia letto la storia di Fernando e Rossana non possa esimersi dal pensare a loro ogni volta che metta piede qui.
A presto,
Roberto
N. B. Da questo ritorno è nata l’idea di aprire una nuova sezione: foto dal libro. Un luogo in cui ho inserito qualche immagine tratta dai luoghi in cui si svolge la storia di Fernando e Rossana.