E perdonami se non ritorno.
Scegliere un posto e chiamarlo arrivo. Quanto ci vuole?
Un attimo, uno spazio, un pennarello. Cose semplici, alla portata di chiunque. Lo stappi e scrivi in stampatello ARRIVO. Poi ti siedi e ti riposi prima di una nuova partenza. Perché sei tu a decidere quando fermarti, sederti, respirare. Sei tu, non l’hai ancora capito?
In realtà non basta un pennarello, serve anche un po’ di coraggio e quello è già più raro. Quello è già una dote. Una ricchezza, una fortuna. E me lo sono ritrovato come moneta fuoricorso nelle tasche, come compagno di viaggio inaspettato, come assegno in bianco da spendere per la cifra che voglio. E come c’è finito chi lo sa.
Non nascondo il timore di trovare deserti in Portogallo, che quando uno si allontana pensa sempre che rimanga tutto immobile, invece succede il finimondo. Non nascondo che mi sembra di partire per un viaggio nuovo, per una dimensione inedita, per una realtà che ignoro. Una parte di me si illude di trovare lo stesso posto, le stesse facce, gli stessi azulejos arcobaleno. Lo stesso oceano, poi. Ma so che non è così, perché il Portogallo è come ogni altro lato e come ogni uomo del mondo: si muove, cresce, muta.
Ho sul letto una valigia aperta di fretta, il computer portatile riempito di niente, un sacco di parole e un sacco di pazienza. Ho sul letto luoghi da visitare che so di dover portare indietro nella speciale sacca che tengo nel petto. E ho un orologio fermo che riprenderà a scorrere proprio lì, sulla lingua di terra che si sdraia sull’oceano e lo dirige come un maestro d’orchestra. Ho una pelle che diventerà irsuta come carta vetrata. E foto scattate con gli occhi, occhi portati come pegno d’amore, amori dimenticati da qualche parte e ritrovati tutti insieme. Chissà.
So che ad aspettare c’è qualcosa e chiedermi cosa è domanda inutile. Non lo so. Non lo so proprio. Però c’è. Ci sono ferri vecchi e malinconia, una saudade intraducibile, con cui fare i conti ogni giorno della vita. Ci sono mucchi di parole nascosti sotto qualche sasso, e lucertole e sentieri sterrati che finiscono nell’oceano. Ci sono “la fine del mondo”, col suo faro, e fiumi dove i pesci parlano lingue diverse. Ci sono valli che tengono sospesi i respiri. E colonne che delimitano confini primordiali.
E adesso torno lì, dove sono stato già quand’ero un altro. Quando questo tempo, questi terremoti, queste lacrime, ancora non erano accaduti. Quando ancora le parole erano semi e non fiori, quando le dita ticchettavano senza pensare, e pensavano senza parlare. Adesso ritorno in modo diverso, ritorno cambiato rispetto all’ultima volta. Ritorno senza voler conquistare. Ritorno in pace. E l’attesa di trovarmi lì è moneta, carezza, spade inguainate nei foderi a formare croci sulla schiena. È un abbraccio che acquieta, un sorriso che leviga. L’attesa di arrivare è inferiore solo al desiderio di restare.
Di Lisbona mi è rimasto dentro il cielo. Forse qualche risacca dell’oceano, una lisca di pesce e un bastoncino di cannella. Di Lisbona mi è rimasto nel petto un tramonto, che nemmeno la fotocamera voleva saperne di ricordare. Di Lisbona mi è rimasto dentro quel che sentivo dentro di Lisbona. Se esistessero le parole buone, si potrebbe usarle adesso, che è il momento giusto. Invece le parole giocano a nascondino proprio quando le cerchi con più decisione. E adesso la paura è di non capire. Ma il Portogallo è fatto apposta per non capire.
Questo Portogallo è un arrivo, lo scriverò col pennarello da qualche parte. Un arrivo e una partenza, come ogni arrivo. E una volta lì ci sarà da capire. Ora sto sdraiato al sole delle certezze di vetro – trasparenti, fragili – di questa parte di vita, e annuvola. All’improvviso, come un foglio di carta del presepe fatto scorrere sul cielo vero. Come una carezza, che passa e un attimo dopo già ne dubiti il passaggio.
La paura è non capire le ragioni dei ritorni, trovare motivi per ripercorrere a ritroso la strada. Tornare qui, tornarci ancora. Ritrovarmi nuovamente nell’attesa. La paura è non capire perchè tornare qui, perchè tornare a casa, perchè tornare indietro.
Vorrei conoscere le ragioni del gambero e delle nuvole. Da una parte quel camminare a ritroso, dall’altra quel nascondere il cielo. Ecco, mi capita. Cammino a ritroso e mi nascondo il cielo. Spero tu abbia compreso cosa mi passa in testa, dove vado, perchè.
Io vado via, tu tienimi stretto, e perdonami se non ritorno. Perdonami. E se magari il sole ci trovasse ancora insieme, avremmo sopravvissuto anche a queste distanze.
La valigia è pronta, manca solo un pennarello.
Roberto