Della prossimità e di altre gioie – Elogio della distanza
Come si toglie tutto questo dal cuore?
Non che mi interessi realmente, lo dico per dire. Si può togliere l’infinito dal cuore? Si può estirpare un certo vento dall’anima?
Mi capita sempre ai ritorni.
Mi capita di pensare che si può esistere in qualsiasi altra parte del mondo, mentre io vivo qui. Che si può vivere dove i ghiacci sono eterni, dove l’erba è alta, dove il sole incendia pianure sconfinate. E io qui. Mi capita di pensare ai motivi per i quali io chiamo casa questa stanza, questo corridoio, queste mattonelle e questo prato. Mi capita di chiedermi perché, quando torno, di solito provo la dolce sensazione del rientro, di chi si è allontanato per un po’, è incorso in un temporale e adesso torna a rifugiarsi tra le mura che sanno difenderlo, coccolarlo, asciugarlo. Insomma il viaggio si riduce a una parentesi tra due qui, tra due adesso, tra due casa.
Il viaggio si riduce a un andare e a un tornare, azioni prima e dopo le quali persiste la stessa persona, forse solo arricchita da quel che il viaggio sa infondere, da quel che i luoghi hanno la capacità di trasmettere. Una parentesi ricca, insomma, ma che ben presto si chiude e diventa ricordo.
Stavolta non è stato così, e devo ammettere che la cosa mi inquieta. Stavolta mi sono sentito a casa, anche lontano da casa. Stavolta ho avvertito ciabatte ai piedi, pigiama, un’amaca in cui dondolare non solo i pensieri ma anche le speranze, i sogni, il domani. E non mi era mai capitato di andare da qualche parte e pensare di poterci restare, restare davvero, avere un cancello, un citofono, un tavolino. Non mi era mai capitato di pensarlo possibile. Perché la casa in cui si nasce non deve per forza vederci crescere, maturare, morire. A dirlo sembra facile, poi però le distanze da lei sono sempre parentesi chiuse.
Io ho sempre temuto l’arroganza della distanza. Perché non si lascia gestire. Perché scorre sotto pelle, specie quella tra le persone. Ti ritrovi lontano e passi la vita a chiederti come ci sei finito. E passi la vita a chiederti dove sei e perché non sei dove invece dovresti essere. E poi della distanza odio il sapore. Che sembra di essere a un passo, magari, sembra di essere sottobraccio e magari invece non ci si cerca più, non ci si sente nemmeno, non ci si pensa – che poi è la distanza più grande.
Adesso ho compreso che col tempo, con la vita, con i dolori, cambia anche il concetto di distanza. La distanza geografica diventa distanza emozionale, i kilometri pensieri, i continenti stili di vita. E si può essere molto più distanti nella stessa stanza che agli antipodi del mondo. Molto più distanti nello stesso letto, nella stessa famiglia, nello stesso amore. E l’importanza della distanza è esattamente questa, maledizione: consentirci di vedere quel che da qui – che è veramente troppo vicino – non si vede. Metterlo a fuoco, zoomare con efficacia, finalmente.
Tutto questo è molto pericoloso, purtroppo, perché non puoi mentirti più, da laggiù, quando ti accorgi che in sostanza sei qualcosa di diverso da ciò che ti sembravi, che sei persino più solo, più separato da quelle persone che credevi accanto, e da laggiù sono ancora più distanti di quanto avvertivi. Insomma, la distanza geografica come veicolo per comprendere la vera distanza emozionale, più o meno è capitato questo.
È capitato di sentirmi più a casa laggiù che qua – la verità. E, di fronte a quel faro a due passi dall’oceano, è capitato di comprendere – altra pietra fondamentale – quanto trascuro e quanto amo, cosa che purtroppo fatico a distinguere fin troppo spesso. Mi è capitato di comprendere quanto io mi lamenti di nulla, quanto io non sappia voler bene come pensavo e quanto sottovaluti, in sostanza, la prossimità della distanza. Già. Proprio questa.
Perché lì certi arbusti guardano l’oceano come se fosse casa, come se non ci fossero migliaia di kilometri prima di altra terra, di altri arbusti come loro. E quella distanza enorme – geografica, s’intende – diventa niente, zero, nulla, a livello interiore. Perché gli arbusti sentono accanto anche gli arbusti che sono dall’altra parte dell’oceano.
Così, semplicemente, ho compreso l’importanza della distanza. Di quella interiore, adesso è chiaro. Che ti tiene vicino comunque, sempre, a prescindere.
I fari non servono solo a indicare la rotta, ma anche a evitare gli scogli. E sono l’ultima cosa che lasci quando via, la prima che vedi al tuo ritorno. Esattamente come le persone a cui vuoi bene veramente. Ti accompagnano all’aeroporto e vengono a prenderti quando tocchi terra di nuovo, ti indicano la direzione e ti aiutano a evitare dolori. Bisognerebbe ricordarlo. E tenersi stretti i respiri che ci stanno a cuore, le mani che a stringerle ci freme il petto. Senza aspettare ancora, che ad aspettare passa via la vita. Solo questo assottiglia – rende brevi, sciocche, ma anche indispensabili – le distanze.
Roberto