La recensione di MARCO ONOFRIO
Giusto un amore (Sovera editrice, 2006).
“Splendida prova d’esordio di Roberto Pallocca, è un romanzo breve di quelli – rari – che incantano e lasciano il segno. Leggiamo in quarta di copertina: «Un romanzo di formazione che è anche un saggio sul più universale dei sentimenti umani». Niente di più appropriato. É saggio, indirettamente, per l’attitudine gnomico-riflessiva e la capacità di esplorare in profondità, senza mai banalizzare, l’inesauribile tematica amorosa; ed è romanzo di formazione, certamente, perché segna un percorso di crescita nei tre protagonisti (Gianni, Cecilia, Therèse), inquadrando un tratto molto significativo e per certi versi decisivo delle loro esistenze.
Gianni Frestella, trentenne di successo, è un “esperto d’amore”. Docente universitario della materia, autore di libri (quello che lo ha imposto all’attenzione pubblica si intitola, idea geniale, “Un amore giusto”), brillante opinionista – parla d’amore alla radio, ne scrive sui giornali – Gianni è diventato celebre grazie alla teoria dell’“amore designato”, da lui formulata, secondo cui l’“amore giusto”, se e quando arriva, si riconosce a prima vista – al di là dei condizionamenti sociali, che pure giocano a sfavore. Noi non conosciamo la persona designata al nostro amore: la ri-conosciamo, perché già l’abbiamo dentro come archetipo, come ideale. Ed è qualcosa che Gianni ha sperimentato in prima persona, allorché ebbe modo di incontrare Cecilia alla Coin di San Giovanni, Roma, dove faceva la commessa. Colpo di fulmine, pochi mesi di fidanzamento e poi il matrimonio, che veleggia felice da sei anni. Ma… c’è sempre un ma. Il loro perfetto idillio d’amore è destinato ad affrontare l’esperienza forte del suo contrario, poiché “le onde non sanno d’essere onde finché non scrosciano su uno scoglio”. Ci vuole l’esperienza. È vera armonia, infatti, quella che non nasce dinamicamente dal confronto? Non esiste vera luce senza ombra. Ed è proprio il contrasto con l’ombra che la rende visibile, che le permette di manifestarsi. Ed ecco allora la crisi come soglia creativa di rivoluzione, di e-voluzione, di crescita. Ed ecco, dunque, Therèse. Un incontro apparentemente insignificante, alla radio dove Gianni lavora, destinato a passare senza traccia (se non per esigenze professionali: Therése, invitata in trasmissione, è l’alter ego femminile di Gianni: l’“esperta d’amore”). Non c’è partita, in teoria, fra Cecilia e Therèse. Quest’ultima infatti non è la classica bionda mozzafiato (sarebbe troppo facile, oltre che banale), ma una donna segnata per sempre da un maledetto tuffo in acque basse, relegata a vita su una sedia a rotelle. Eppure… È nella forza di questo “eppure” il mistero straordinario dell’amore. Eppure Gianni prova turbamento. Perché Therèse è in grado di dargli l’unica cosa che a Cecilia non è possibile: la condivisione attiva di una passione (lo studio dell’amore) su cui Gianni – come pure Therése – ha impostato la propria vita. Cecilia si è adattata passivamente a questa passione, lasciando il lavoro di commessa e trasformandosi in segretaria personale del marito, utile a gestirgli i tumultuosi impegni derivati dal successo; Therése, invece, è in grado di dialogarci alla pari, di stimolarle entrambe ad un dialogo, passione e vita, chiamandole a nuovi orizzonti. Gianni si è cristallizzato in Cecilia, nella forma (starei per dire gabbia) dorata del loro amore; Therèse è la vita, è la trasformazione: un sorso d’aria fresca che lo sveglia, illuminando il cuore. Therèse giunge propizia, al momento e nel punto giusto del percorso. Gliela manda la vita stessa, a Gianni: come un messaggio, un invito, uno sprone. Gianni ha bisogno di Therèse, per sentirsi vivere, per tornare a vivere: per continuare a restare fidanzato col futuro, e a contatto con le sue promesse – oltre gli scenari acquisiti di un passato radioso che non fa più storia, perché il presente lo ha reso stantio, lo ha messo impercettibilmente in discussione, ormai maturo per il cambiamento. È tutta questione di emozioni: lì Therèse è in vantaggio, rispetto a Cecilia, perché porta a Gianni emozioni fresche, ovvero linfa vitale che lo accende, gli dà luce, nuova identità. E non parliamo di cosa trascurabile, ché anzi l’amore è praticamente fatto di emozioni. Scrive Pallocca: “Un matrimonio non cade per due seni o un sorriso. Cade per delle emozioni”. Proprio perché è fatto di emozioni, l’amore è in grado di manifestarci, di rivelare l’uomo a se stesso. Perché l’amore è “quanto di più umano” (e quindi fragile) ci sia in un essere umano. Per questo è sempre difficile parlarne senza essere banali. “Quanto è complesso descrivere l’amore”: così comincia il capitolo 44. È complesso perché l’amore è complesso, integralmente aperto sulla misteriosità del cuore umano. Solo una vicenda complessa – bipolare e aporetica, dove cioè trovino udienza le ragioni di opposti versanti – è in grado di darne un ritratto fedele, o almeno adeguato.
Gianni dunque prova turbamento. Uno stato d’animo che lo porta alla prima scenata con Cecilia – dopo sei anni di matrimonio “perfetto” – solo perché (futile pretesto) la minestra di farro è troppo scotta: accade la sera del giorno stesso in cui ha conosciuto Therèse, ed è il riflesso naturale del turbamento che comincia, fin da subito, a farlo vacillare. Dando voce, tuttavia, ad una crisi già sottesa (e probabilmente in corso) nell’inerzia o nella stasi di un apogeo apparentemente non migliorabile, quindi necessaria, anzi auspicabile e provvidenziale, in termini di crescita, di esigenze evolutive. Solo la notte è in grado di sciogliere lo stallo del mezzogiorno: oltre il sole non può crescere, e infatti comincia a cadere, fino al suo tramonto. Se è vero che tutto scorre e nulla è immune da trasformazione, allora smettere di crescere non è fermarsi, ma cominciare già la decadenza. Therèse, in questo ordine di idee, è semplicemente la materializzazione di uno stato di cose latente, il corpo di uno spettro che proprio col suo arrivo sulla scena ha modo di manifestarsi – ma che già esisteva: magari sotto forma di malessere inconscio, di sottile disappunto, di sapore in bocca dolceamaro. C’è un’impasse propria della perfezione. “Gioia” talvolta fa rima con “noia”: ci si stanca, prima o poi, anche del “paradiso”. Pallocca segue con mirabile finezza psicologica il corso progressivo dell’innamoramento che, parallelo e complementare al disamore, sposta Gianni dalla parte di Therèse. Come una pulce nell’orecchio entra, per annidarsi, l’immagine dell’altra persona – attraente proiezione di se stessi, dei propri ideali. Ci si sorprende a pensarla. Se ne avverte il fascino. Si ha voglia di conoscerla meglio, di svelare il suo mistero che ci chiama. Il tempo insieme che non basta mai: “Era più indesiderato l’addio a Therèse che il rivedere Cecilia”. Il ritorno a casa che non è più un “ritorno”. La vicinanza fisica che non coincide più con quella spirituale. Gianni recede dalle proprie granitiche e un po’ artificiose certezze, per contattare zone d’ombra sconosciute, nella profonda realtà del sé. E, naturalmente, entra in conflitto con se stesso: si trasforma nel dialogo con l’esperienza, nel processo evolutivo innescato dalla crisi.
Il dilemma è antico quanto l’uomo: Amore o Psiche? Cuore o Ragione? Vita o Forma? Armonia appagata o dis-ordine creativo? Gianni sprofonda nella crisi, ci casca dentro fino al collo. Anzi, fino alla bocca. La bocca con cui bacia Therèse, prima sulla guancia e poi ricambiandone le labbra. Il loro primo bacio è un “cielo appena appena rosso, all’inizio di un tramonto”. Tramonto, giustamente, poiché il loro è un amore impossibile e – inesorabilmente – senza futuro. Proprio perché, come aveva dimostrato lo stesso Gianni Frestella, “l’amore è turbato dalla società”: orientato e condizionato da sovrastrutture di ordine sociale. Per un certo periodo, tuttavia, Gianni e Therèse diventano amanti: vivono la polpa viva dell’amore, al di sotto della “forma”. Il pretesto che “giustifica” i loro incontri è la stesura di un libro a quattro mani… Ma poi anche Therèse si lascia condizionare da fattori sociali di ruolo, di priorità: chiede a Gianni di essere l’unica, giacché non ne può più di condividerlo con Cecilia. Gianni, al momento, sceglie Therèse. Torna a casa deciso a mollare Cecilia: ma l’imprevisto colpo di scena finale (che ovviamente non riveliamo) glielo impedisce, per cui la situazione si rovescia e in un attimo “gli occhi da affrontare” diventano quelli di Therèse. Gianni Frestella capisce così “a volte, l’amore è un treno da perdere. Un posto da non raggiungere. A volte, l’amore è restare”.
I protagonisti di questa storia di “dolore e cambiamento”, densa di vita e umanità, sono ben scolpiti e delineati – nella loro “propria” realtà psicologica. Li puoi “toccare con mano”. Sono loro: si fanno riconoscere. Lo stile è limpido come il cristallo, guidato dal gusto della parola appropriata, della chiarezza profonda, della semplice complessità. È molto forte la calviniana “visibilità” del linguaggio. Le immagini si imprimono per evidenza simbolica, virano nell’intuizione, ti trafiggono come un lampo e ti lievitano dentro – magari dopo un po’ che ci hai passato l’occhio. L’amore è analizzato con grande acume, nel tessuto corpuscolare delle sue sfumature, e dipinto nel gioco delle sue sottili, delicatissime alchimie. Si fa notare una certa dimensione “narratologica”: Pallocca guarda il farsi del racconto nel mentre che lo narra, interrogandosi sui modi, sui tempi, sui fini, sul ruolo e sull’evoluzione stessa dei personaggi: non nasconde, cioè, che sta narrando una storia. Vorrei, da ultimo, evidenziare la “vocazione cinematografica” di questo romanzo, che procede per stacchi efficaci, con un ritmo serrato e tagliente che contribuisce non poco a renderne piacevolissima la lettura. Leggetelo, dunque!”
Marco Onofrio