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Sbagliando

Sbagliando si impara, si dice. Io sbaglio e imparo, ma continuo a sbagliare. Come funziona?

Voglio dire: ci sarà un attimo in cui l’errore che ha portato ad una comprensione, ad un apprendimento, a una interiorizzazione dell’errore stesso saprà lasciarsi alle spalle il concetto stesso dello sbagliare. Esiste questo momento? Il momento in cui uno riesce a dire a se stesso “vabbè, ho sbagliato ancora, pazienza”, senza che quell’ennesimo errore diventi scandalo, nervosismo, dolore?

Esiste un momento al di sopra dell’errore, in cui sappiamo guardarci nella nostra imperfezione e sentirci comunque perfetti? Esiste un istante in cui l’errore verrà preso come una tappa e non come uno sbaglio, una carezza e non uno schiaffo, una giostra e non la vita?

Ci sono persone che sbagliano sempre, persone che non sbagliano mai (credono così) e persone che credono che sbagliare sia un virtù. Almeno tra quelle che conosco. Io sbaglio da sempre per davvero, credendo di non averlo mai fatto, e penso che sbagliare, alla fine, sia una virtù. Sono un ibrido, cazzo.

Ho sbagliato molto, in realtà quasi tutto. Amori e indirizzi, calendari e spiagge. Ho sbagliato materassi, cuscini, riposi. Ho sbagliato troppi mazzi di fiori, troppi citofoni, troppe lettere. Ho sbagliato ad aspettare, quando non era il caso, e ad andarmene quando invece era questione di attimi. Ho sbagliato a scendere in certe fermate, e a risalire subito, senza cogliere quell’opportunità del destino.

E ho sbagliato a credere di poter resistere, di poter tenere saldo il timone come fosse una foglia. Ho sbagliato a sottovalutare il vento, il sole, le stelle e la terra. Ho sbagliato a crescere, a disilludermi, a perdere le mie scarpe aperte, di quando ero piccino. Ho sbagliato a voler volare senza saperlo fare. E a non insistere quando ho capito che potevo imparare a farlo.

Ho sbagliato ad avere paura e a smettere di averla, un giorno. Ho sbagliato a non dimenticare certi ricordi, a non ricordare certi volti, a non lavarmi i denti con puntualità, a non prendermi cura di me, come se fossi una persona che amo. Ho sbagliato a non ricredermi di fronte a cambiamenti importanti, e a concedere infinite seconde possibilità a chi non ne meritava più.

Ho sbagliato goal incredibili a porta vuota, passaggi elementari, rigori. Ho sbagliato a fissare tramonti svaporati e arcobaleni incerti, per poi aspettarli nuovamente per definirli ancora. Ho sbagliato a contare. A contare il tempo come se mettersi a contarlo non fosse, poi, perderne già molto. Ho sbagliato a contare su qualcuno, a contare per qualcuno, a contare da qualcuno in poi, come se fosse spartiacque, casello, dogana.

Ho sbagliato a credere in Dio quando me ne parlavano e a smettere di crederci quando mi parlava Lui. Ho sbagliato a tapparmi le orecchie quando passavano musica Jazz, e a urlare quando cari amici mi sussurravano confidenze. Ho sbagliato a insistere, ho sbagliato a scegliere. Ho sbagliato a piangere, che le lacrime buttano fuori il dolore, ma bruciano, ma segnano, ma afflosciano lo sguardo. E a volte ho sbagliato persino a fare il biglietto, a mettere segnalibri tra le pagine, a regolare le sveglie, a alzare il volume. Cazzo se ho sbagliato.

Ho sbagliato ad avere certi sogni, perché i sogni, poi, non si accontentano mai di essere sogni e vogliono superare il valico dell’alba. Diventare realtà. E non c’è mica spazio per tutti i sogni nella vita.

E poi ho sbagliato a prendere l’autostrada, invece che la statale, e a fermarmi così poco agli autogrill. Ho sbagliato frasi, e parole, e addirittura lettere. Ho sbagliato lavaggio, e la lavatrice ha smacchiato tutto quanto, maledizione.

Ho sbagliato a restare immobile, quand’era tempo di correre, e a fracassarmi i polmoni quando non c’era fretta. Ho sbagliato pezzi del puzzle, regole del gioco, pedine. Ho sbagliato le istruzioni e non riesco a far funzionare questo frigorifero che ho nel cuore. Ho sbagliato parcheggio, ho sbagliato zucchero nel caffè, ho sbagliato caffè. Ho sbagliato antenne, canali, programmi. Ho sbagliato vele, scafi, ancore. Ho sbagliato velocità, direzione, frenata. Ho preso in pieno muri di cemento e schivato ramoscelli morti.

Insomma ho sbagliato molto. Eppure adesso mi guardo e credo che sia stato dolce. Credo sia stato mio, credo sia stato necessario. E non esisterà, magari, l’istante in cui si diverrà consapevoli di se stessi al punto da contaminare il futuro e non sbagliare più, ma mi piace pensare che ci si possa approssimare non tanto a una utopica, sciocca e quanto mai inutile perfezione ma a una forte consapevolezza di essere uomo.

Perché smettere di sbagliare sarebbe il più grosso degli errori.

Roberto

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