Almeno una parola
ADDIO IN FORMA DI RACCONTO
All’improvviso non seppe che dire. Non trovava nessuna parola, neppure una, neppure una delle migliaia con cui giocava ogni giorno, che potesse essere adatta a quel momento.
Una parola che potesse riaprire discorsi interrotti, detergere zigomi lisi da lacrime incessanti. Una parola che potesse far galleggiare speranze affondate come piombo dentro un mare di eventi e di cose che ricostruire sarebbe stato impossibile.
Avrebbe voluto saperlo fare, tornare indietro e intercettare il futuro prima che diventasse futuro, prima che accadesse. Avrebbe voluto ripercorrere a ritroso i momenti culminanti della sua vita, quelli che lui chiamava momenti performanti, perché in grado di dare forma, di dare spazio, di dare direzione a ciò che ancora doveva avvenire. Quei momenti che tutti chiamavano bivi e lui mai. Perché il bivio gli era sempre sembrato qualcosa di riduttivo, qualcosa che possedesse un numero finito di scelte, e non un girotondo in cui potersi fermare quando si vuole e cominciare a camminare. Come invece capita nella vita.
E insomma non seppe che dire. Rimase zitto come un pesce, mentre intorno il mondo e quel parco giochi zeppo di vita, continuavano la loro esistenza quieta. Si frugò il cuore e il cervello, entro ambiti esatti in cui riponeva tutte le parole che aveva letto, che aveva ascoltato, che aveva imparato. Camminò con cura nella sua memoria, facendo attenzione a non calpestare ricordi buoni, fotografie ancora vive e accese, che ognuno tiene dentro sé, alla ricerca di un aggettivo, di un nome, di un avverbio da pronunciare in quel momento, con lei accanto, con lei addosso. Avrebbe voluto anche soltanto sorridere, o semplicemente sospirare, o morsicare qualche mezza parola e far sì che da essa riprendere ad esistere fosse naturale.
Avrebbe voluto voltarsi verso di lei e chiederle perdono, perché il perdono è l’unica soglia da cui passa il sentimento appannato, l’unica soglia che porta in stanze nuove, da abitare insieme. Senza perdono ci si perde. E loro, lì seduti, si stavano perdendo.
La panchina sotto al sedere diventava ogni istante più fredda, ogni attimo più dura. Da quel dettaglio lui comprese, se ancora ce ne fosse bisogno, che da un istante all’altro le cose cambiano. Cambiano che le senti, cambiano che te ne accorgi e ne paghi le conseguenze, cambiano che ti cambiano. E quel che un istante prima potevi, adesso non lo puoi più.
Lei guardava altrove e lui lo sapeva senza guardarla, senza voltarsi. Sapeva che lei stava cercando altrove distrazioni misere a quei pensieri immobili. Sapeva che i suoi occhi cercavano appigli nelle cose, come uncini nella lana, per dimenticare anche solo un istante quel che stava accadendo per davvero. Lui lo sapeva. E questo sapere lo immobilizzava.
Come si fa a dirti che non ti amo più e non so il perché? Come si fa a dire che è finita? E perché non si capisce più come fa a finire un amore?
Lei si mosse impercettibilmente, forse di un paio di centimetri, forse meno, e lui con la coda dell’occhio riuscì a guardarle i capelli. Un momento, appena. Riuscì a mettere a fuoco il dolore che le stava causando e si sentì disperso, come una bottiglia in mare, con dentro uno splendido messaggio d’amore, che non avrebbe letto mai nessuno. Da quel minuscolo sguardo comprese che aveva ucciso, che aveva ammazzato quell’amore come fosse un ladro, un assassino, un farabutto. E pensò di meritare ergastoli, violenze atroci e torture, ma neppure tutto questo riusciva a fargli salire in testa una parola, una cazzo di parola buona.
E’ che la sua coscienza oramai era plagiata, era corrotta, era di cera. E non sarebbe tornato indietro più. Mai più. Neppure volendolo, neppure lottando per tornare in quelle spiagge abitate insieme, neppure vestendosi allo stesso modo, pettinandosi come allora, mettendo su lo stesso profumo, la stessa sciarpa, cantando le stesse canzoni, ridendo delle stesse sciocchezze. Non sarebbe tornato indietro più neppure volendolo. Neppure riproducendo con minuzia il passato che era passato, appunto. Neppure riavvolgendo il nastro esaurito di quell’amore. Neppure respirando la stessa aria, nutrendosi dello stesso cibo, dormendo nella stessa posizione, stretti, insieme, o facendo tutti gli amori di una volta, tutti quanti, tutti così, senza più problemi, senza più paura.
Lei aspettava qualcosa che non sarebbe arrivato. Non voleva andarsene per non sembrare disinteressata, ma non sarebbe riuscita a restare ancora per molto. Il peso di quel silenzio era insostenibile, imbevuto di insani malesseri e di aguzze malinconie. Non c’era storia, non c’era senso, non c’era neppure speranza. E quando non c’è più nulla che si resta a fare? Un cinema chiuso, uno stereo spento, una matita spuntata.
Di fronte a loro passarono due ragazzi, mano nella mano, a vivere il tempo del loro amore, il tempo migliore, quello in cui il futuro è al suo posto, a rappresentare l’ideale, l’ambizione, il poi. Il ragazzo le soffiava tra i capelli qualche parola, lui ce le aveva ancora le parole, tutte fresche, tutte profumate, le parole.
Avrebbe voluto chiederle almeno scusa, lui, almeno quello. Almeno una parola dolce. Mostrare almeno un sentore di dispiacere. Ma le cose accadono proprio quando si pensa che non possano accaderci. Proprio quando ci sentiamo in disparte. Quando ci sentiamo altrove, impegnati in altri affari. Ma scusa di cosa, poi? Scusa di cosa?
A lei venne in mente che l’appuntamento su quella panchina era lei stessa ad averlo voluto, e che forse persino quell’amore, quegli anni, quei dolori, quelle meraviglie, quelle sensazioni forti, le aveva volute lei. Aveva voluto tutto lei. Come una fonte di volontà incessanti, che puntualmente si realizzavano e diventano di creta, di roccia, di futuro. Così d’un tratto pensò che ancora una volta era lei a doverlo desiderare, a dover desiderare qualcosa, per dare a questo qualcosa la dignità di esistere. Era lei a dover desiderare per poter realizzare. Così comprese che non era quello il posto suo, il posto in cui si avvertiva donna, esattamente quella donna che avrebbe voluto essere. Non era quello. Così fece un sospiro, un sospiro profondo, fece leva sulle gambe e si alzò in piedi, senza voltarsi senza guardare senza parlare. Come se, su quella panchina insieme a lei, non ci fosse stato nessuno. Come se.
È che forse i bisogni che abbiamo hanno un tempo, oltre che un nome, oltre che un indirizzo, oltre che un volto. Hanno un tempo entro cui essere bisogni, poi diventano ricordi, poi diventano rimpianti, o soltanto qualche altra sciocchezza che a noi esseri umani non è concesso di capire.
Lui la vede alzarsi e andare via, come se avesse iniziato a piovere. E mai come in questo momento vorrebbe dirle aspetta, vorrebbe dirle resta, vorrebbe dirle ho sbagliato ma ti amo, lo so ancora dire, vedi? Ma le parole si ingolfano in mezzo alla carotide, restano in coda dietro al semaforo, rosso, della propria emotività, del proprio dolore, del proprio infame e vile rincorrersi restando seduti, al desiderarsi in silenzio, all’amarsi senza amare.
E così le parole abdicano ai sentimenti. Abdicano per l’incapacità di significare. Per l’incompletezza del loro portato semantico. Come a dire che le parole le usiamo per dire molto, non tutto. Non tutto quanto. Perché le parole hanno confini, come tutto il resto, hanno recinti e muri di cinta, oltre i quali anch’esse sono straniere, sono inservibili, inutili, forestiere.
Lui la vide allontanarsi lentamente, oltre i muri di cinta delle sue parole, e comprese che essere lì in sostanza era una conclusione, un epilogo, ma che al tempo stesso tutta quella situazione, quelle suole che lui vedeva adesso allontanarsi e calpestare distanze profonde, erano un inizio. Un trailer dopo i titoli di coda.
Perché certi uomini hanno bisogno di essere uomini prima di essere padri, di essere mariti, di essere amanti. Hanno bisogno di sentirsi vivi prima di realizzare qualcosa nella vita. E lui doveva ripartire da sé, da sé stesso, dal proprio giardino, prima di coltivare altrove. Non c’è ragione di seminare altrove se dentro di noi sta andando tutto in malora. E gli morì in gola, in quel momento, l’unica parola che seppe pensare, l’unica che seppe riconoscere. Avrebbe voluto urlarla a tutta voce, finché lei non l’avesse sentita, non fosse tornata, non avesse capito, ma mentre pensava se fosse giusto farlo, l’aveva già scordata.
07 ottobre 2009
Roberto Pallocca