Il prima
Prima di tutto questo c’era un giardino molto curato, lo ricordo bene.
Non c’era un fiore, uno solo, che non fosse al proprio posto, al posto giusto, dove chiunque altro l’avrebbe piantato. Non c’era petalo che cadesse senza permesso, non c’era erbaccia che crescesse senza pietà.
Prima di tutto questo c’era un cancello di bronzo, enorme, sempre aperto. E chiunque ne avesse il capriccio, o il desiderio, poteva varcarlo e venirsi a sedere qui, nelle panchine ordinate a schiera che tenevi nel cuore.
Prima di adesso c’erano sentieri di ghiaia assestata, che scricchiolavano allegramente, che massaggiavano le suole delle scarpe, come sabbia. Prima c’erano alberi secolari, e ombra a non finire, erbetta tagliata fina fina, morbida come cotone, e siepi dell’altezza giusta per difendere senza dividere.
Prima era sempre aperto, anche la notte. Certi bei lampioni, dalla luce gialla, indicavano le arterie entro le quali era possibile dare vita, pulsare come sangue, spirare come aria. In certe aiuole c’era scritto di te, di quel che sognavi, di quel che potevi. Sotto le cortecce c’era il futuro. Tra le radici la speranza.
Sotto qualche sasso si nascondevano lucertole e scorpioni, niente di preoccupante nell’economia di quel paradiso. E tra i rami magari qualche cornacchia, qualche ragnatela, qualche piccolo felino. Ma la gente entrava e usciva, parlava e respirava. Riposava. Cantava, pensate. La gente cantava. E veniva qui dentro per prendere il sole, come se il sole non fosse lo stesso ovunque. E guardava tutti i fiori, senza saperne il nome, senza ascoltarne il profumo. Prendeva una manciata di ghiaia e la lasciava scivolare lentamente tra le dita, piccole clessidre artigianali a regolare un tempo personalissimo.
Poi il poi.
Il problema di un giardino non è fiorire in primavera, ma resistere all’inverno. Fiorire è così naturale, resistere così impossibile. E prima l’inverno non esisteva, prima l’inverno era una parola. Adesso fa freddo e non c’è nessuno che sappia come ci si può scaldare.
Il prima ha l’abitudine di passare. E diventare adesso. E diventare poi. Ma quando lo vivi, il prima ti sembra sempre. E questo inganno, adesso, lo chiami vita.
Chiami vita questa rovina, il cancello divelto, le panchine azzoppate, il muro di cinta due volte più alto. Chiami vita il prato incolto, le erbacce proliferate come funghi, chiami vita i singhiozzi di petali a terra, calpestati con noncuranza dalla poca gente che si ostina a visitarti ancora. Che adesso paga persino un biglietto per entrarti nel cuore. Che adesso viene qui, per restare all’ombra, per dimenticare il sole. E coglie fiori – gli ultimi – con incuria e violenza. Con superficialità.
Chiami vita i lampioni spenti, di notte. Chiami vita i fiori secchi. Qualche topo. Qualche cartaccia buttata senza ritegno. Chiami vita quel che si diventa, quando si trascura quel che si è davvero. Quando lo si fa per troppo a lungo pensando che non sia molto.
Chiami vita quel che non si immagina, quel che non si sa, quel che a un certo punto ti scopri nello specchio.
Così, senza altre scelte, stringi i pugni, tiri un sospiro, prendi un paio di guanti.
Fuori un cartello: lavori in corso.
Roberto