Impronte e intenzioni
In quest’ultimo periodo mi chiedo spesso se mi guardi.
E resto immobile come uno scemo, impietrito di fronte alla banale violenza di questa domanda. Mi guardi? Tu, da lì, puoi guardarmi?
Io ti immagino seduto, su una di quelle sedie di legno, dei cinema di una volta. Coi gomiti sulle ginocchia. Con le palpebre socchiuse, a scrutar lontano. Ti immagino scommettere con chi ha la fortuna di esserti accanto su quel che questo tuo figlio riesce a combinare.
“Eccolo, adesso crolla” – “Ma dai, che dici? Secondo me ce la fa. Ce la fa.” – “Ma come fa a farcela? Non lo vedi che è sfinito?” – “Tu non lo conosci, ha tanta di quell’energia nascosta…”
Ti immagino uguale, distante dal trascorrere del tempo fluido, come un uomo nascosto nell’erba alta, a qualche metro da un’autostrada. Vedi tutto passare, e resti fermo a guardarlo. Come se osservare qualcosa fluire via contenesse carezze, significasse movimento. Ti perdi dietro queste mie mani che fanno confusione, queste gambe che si annodano e non sanno dove andare, questo cuore che non ricorda, non ricorda più nemmeno come si possa decidere di amare. Si può deciderlo? Ecco, non lo sa.
Disperdo energie. Questa è la prima cosa che mi rimprovereresti. Ti conosco, cavolo. Anzi, ti ricordo. Quando qualcuno non c’è più ha forse senso dire che lo “conosciamo”? Forse ha più senso dire che ricordiamo com’era quando lo conoscevamo, forse sì. Ecco. Ti ricordo. Tu saresti incazzato come una bestia, furioso. Mi prenderesti a sberle fino a farmi uscire il sangue dalla bocca. Poi mi stringeresti forte e mi diresti “coglione”, mi diresti “sei un magnifico megacoglione”. E io ti direi che lo so, che i coglioni lo sanno sempre di essere coglioni, solo che gli fa comodo fare finta di non saperlo, perché accettare di esserlo sarebbe la cosa peggiore. Ti direi che lo so, ma tutelerei il mio essere con una manciata di scuse idiote, di sciocche rappresentazioni teatrali del cuore, dove io sono sempre la vittima e mai il colpevole. Mai. Così tu mi diresti che è tardi. Che è tardi per sentirsi speciale, per sentirsi diverso, per sentirsi vivo. Che è tardi per tutto, che è tardi persino per dire che è tardi. E che io sono un coglione, mega iper stra, perché smarrisco tempo come ciabatte in giro per casa. Perché piango lacrime non necessarie e mi sento pure intelligente. Mi sento di vivere, mi sento di fare questa vita generosa e appagante, e invece sono disperso. Bottiglia galleggiante nell’oceano, con dentro un foglio bianco.
Tu mi segui. Ci scommetterei tutto quanto. Non solo con lo sguardo. Mi segui con l’attenzione di chi mi ama. Ma io non so più come fare, capisci? Io lascio impronte senza sapere da dove provengo, ogni tanto mi volto, le guardo, e mi chiedo: sono mie? Sono mie quelle suole lì? Sono io che le ho calpestate? Forse. E mentre mi faccio domande così, ho già dimenticato dove sto andando. Verso cosa sto andando. Con chi. Perché. Tu sorridi, perché ci hai capito qualche cosa più di me, credo. Ma io non riesco nemmeno più a ridere di gusto.
Che c’è da ridere? Dimmi cosa c’è, così ridiamo insieme…Che bello che è ridere con qualcuno. Ridere senza mezze verità, senza inganni, senza finzioni, ridere perché si condivide la stessa ironia, sullo stesso piatto di vita. Non mi capita più. Tu mi facevi ridere tantissimo, dimmi qualcosa. Fammi una battuta irresistibile, spara. Non vedo l’ora di scompisciarmi dalle risate, tenermi la pancia, lacrimare.
Se fossi qui, ti direi che mi capita spesso di svegliarmi la mattina con la sensazione di avere di fronte una giornata importante. Anche se si tratta di una giornata qualunque. Mi sembra tutto importante, cazzo. E questo sembra bellissimo, ma non lo è. Non lo è proprio. Perché si smette di vivere con disinvoltura, si smette di cogliere la ragionevolezza come un accessorio, non come una necessità. È quello che sta capitando a me. Vivo ogni cosa come se fosse decisiva. Ogni cosa come se fosse un enorme impegno. Dove stanno le farfalle? Gli stradoni sterrati e le palle che ruzzolano a terra in attesa di qualcuno che sappia fermarle? Dove sta quel dolce viversi per vivere, annoiarsi, crogiolarsi al vento soffice di una sciocchezza?
Mi ritrovo spesso a raccogliere cocci, vaffanculo. Cocci informi, che non sanno nemmeno loro da dove vengono, cos’erano prima di diventare cocci, di diventare ricordi di qualcosa che era unito, e adesso è frammentato per sempre. Qualcuno dice che si possono rimettere insieme i pezzi di qualcosa, farlo tornare unito, come nuovo. Io dico che i pezzi sono pezzi e che, quando si ha la forza, la bontà, il coraggio di rimetterli insieme, altro non si fa se non consegnarsi al gioco del ricostruire. E ricostruire non è costruire. E un vaso caduto a terra e incollato non è quel vaso che avevano prima, ne è un’immagine, persino ben fatta, persino esatta, ma non lo stesso.
Tu mi diresti: Che diavolo hai in mente? Dove vuoi arrivare? E io ti risponderei che non lo so, che non so nemmeno dove sto andando. E che è grave. E che non me ne frega un cazzo che è grave. Le bottiglie alla deriva contengono sempre qualche foglio scritto fitto, con qualche grande verità. Altrimenti non starebbero lì, no? Chi è che lancia una bottiglia con un foglio bianco? Quale intenzione potrebbe avere? E chi trova quella bottiglia cosa se ne fa di un foglio che non dice nulla?Ah, sto facendo lo stesso errore, vedi? Entro in queste spirali di niente e ci passo la vita. Sono su un’altalena tra impronte e intenzioni. Qualcuno mi spinge, ma io non lo vedo, non so chi sia. E forse poco importa. Importa di più che sento la spinta allentarsi, che sento le braccia stanche, chi mi spinge demotivato, l’orizzonte immobile. Conta di più che pensavo di poter scendere, e invece l’altalena sono io. Le sue gambe sono le mie gambe, l’asta che le tiene unite è il mio corpo, e questo sedile che non smette di muoversi mai è il mio cuore.
E mi chiedo cosa sia la quiete. Cosa sia la calma. Cosa sia il godersi ciò che si fa, ciò che si è, ciò che si ama. Apprezzandolo. E quando mi poserò su qualche spiaggi incontaminata, al ritorno dalle derive di questo tempo, il foglio bianco che contengo capiterà tra le mani di chi saprà scriverci su qualcosa di veramente bello. E il senso sarà quello, essere supporto per le parole degli altri, esserne ragione, esserne ispirazione. E poi tornare a largo, in attesa di nuove spiagge, nuove mani, nuove
Avevi ragione: bisogna stare con chi si ama.
Un abbraccio forte come la distanza che rendiamo inutile.
Roberto