Lo spazio tra le rovine
Le mani devi pur infilarle da qualche parte, per trascinarle via.
Devi inserirci le dita, lentamente, graffiarti la pelle, fino a sentire il sangue colarti piano sui polpastrelli umidi di panico. Devi contare sui millimetri. Non perdere speranza nemmeno se senti la polvere caderti in mezzo agli occhi, se lo scricchiolio delle pietre ti costringe il ventre. Non devi rinunciare. Non devi farlo.
L’aria manca quasi subito, piccoli movimenti involontari ti lasciano segni sulla pelle, simili a ferite. Il pantalone non l’hai quasi più, strappato, lacerato, divelto dalla cute come buccia dalle mele. Gli occhi sono più rossi di un tramonto, tempestati di briciole, di fango, di catrame. Ringrazi Dio, di essere lì, di essere sotto dieci tonnellate di rovine, ma di riuscire a pensarlo. Ringrazi Dio di essere esattamente dove sei, né dieci centimetri più a destra, né dieci centimetri più a sinistra. Sarebbero stati sufficienti eccome per lasciarci la pelle. Ti trovi tra una trave di ferro e un tramezzo di cemento armato, se socchiudi gli occhi li vedi chiaramente. E potevi finirci sotto, diviso a metà dal quel peso immondo. Senti i polmoni saturi di sabbia, di aria grezza, di ricordi. Senti le mani irsute e le unghie dense di nero.
Sei immobile. Ogni tanto hai la sensazione che lo spazio attorno a te diminuisca, ma sai che non è possibile, perché anche le rovine si stabilizzano prima o poi, anche le rovine trovano riposo dopo il crollo. Occorre solo sopravvivere a certi crolli, perché certi crolli sono fatti per uccidere, e non li racconta mai nessuno. Tu invece sei lì, e godi del riposo statico di quel che ti è crollato addosso poco fa. Di quel che adesso è un ammasso informe di macerie, ma fino a poco fa era la tua vita, era il tuo amore, era te.
Hai paura a muoverti troppo, ma sai che qualcosa dovrai pur fare prima o poi. Sopravvivere ad un crollo non vuol dire uscirne illeso. Non vuol dire essere salvo. Se non te ne esci subito da lì morirai di sete, morirai di fame, morirai di ciò che si muore quando non si ha spazio, non si ha possibilità, non si ha margine.
Quali possibilità ci sono nello spazio tra le rovine? Quali possibilità concrete, se non quelle di tentare di uscirne quanto prima? Di potersi sedere a un tavolo con gli amici più cari e dire “io ero lì sotto, e adesso sono qui con voi”?
Così inizi a pensare alle tue possibilità. Inizi a pensarci adesso, tra un colpo di tosse e uno di malinconia. Come si va a finire là sotto? Come si ha a che fare con le rovine? Innanzitutto c’è da dire che tu pensavi che non ci avresti avuto a che fare mai, con le rovine, non per questione di saccenza, ma perché avevi costruito tutto proprio bene, con cura, dedizione, pazienza. Avevi fatto attenzione al minimo dettaglio, avevi smontato e ricostruito, passato per bene persino la vernice sui muri. Così comprendi adesso che costruire bene non vuol dire sopravvivere ai terremoti, perché costruire non è qualcosa che si fa una volta, si fa sempre. Si fa in ogni momento, soprattutto se si costruisce un amore. Ci serve manutenzione, ci serve controllo, ci serve amore per tenere in piedi l’amore.
Se sei qui, adesso, qualcosa non torna. Qualcosa è mancato e poco importa di chi è la colpa, importa che si è soli, poi, dopo il crollo, e attorno solo macerie. Importa che uno vorrebbe pace, riposo, silenzio, quiete e invece riesce a malapena a respirare là sotto.
Un tuo dito tocca la luce. Passa a malapena in un pertugio circolare, fa forza, lievemente ma con costanza, il piccolo nastro di luce diventa un fascio, diventa un foglio di luce che ti invade di sbieco gli occhi, e ti dona la voglia di vivere. Serve a quello il sole. E quel raggio di sole ti fa comprendere il senso del luogo in cui ti trovi, il senso dello spazio tra le rovine.
È la vita il senso dello spazio tra le rovine. È preservarla ai crolli inevitabili che ognuno deve affrontare. È tutelarla quando sembra tutto schiacciato, compromesso, perduto. Quando da lì fuori nessuno punterebbe un soldo sulla tua sopravvivenza e invece tu sei lì, in quello spazio misero, sufficiente appena a contenere una speranza piccola, un bagliore ultimo di conservazione. E se sei lì sei ancora vivo. Ti pare poco?
Il dito crea un varco, ci infili un braccio e sposti con una fatica smisurata la pietra più pesante, ci metti un po’, ma non c’è fretta. In fondo questo tempo hai rischiato di non viverlo e ora ti sembra un dono. Prendi un sasso per volta e lo fai rotolare di lato, il sole conquista il tuo corpo centimetro dopo centimetro. Non hai paura, sai che non sbaglierai. L’unico pensiero negativo che ti passa in testa, adesso, è che quelle pietre erano la vostra casa, erano il vostro sogno, erano voi, insieme, prima di tutto questo. E spostando quelle pietre sposti il tuo passato, sposti quel che eri e che adesso è a pezzi su di te.
L’ultima pietra e sulla tua caviglia. Ti pieghi, la sollevi e la fai scivolare di lato. Provi ad alzarti, ma la caviglia ti fa molto male, deve essere slogata. Che importa? In fondo guarirà, no? Ti trascini lontano da ciò che poteva costarti la vita, ti siedi a terra e resti ad osservare quella montagna di voi in frantumi. Noti dettagli di quel che conteneva la tua vita, oggetti che avevi dimenticato di avere e che galleggiano su quel mare di niente come sughero. Cd, libri, coperte, pupazzi, lettere d’amore.
Mentre fai per alzarti e andare via si muove qualcosa. Resti ad osservare quel punto come se potesse spuntarci fuori un coniglio, o una volpe. Lo fissi come se non avessi capito benissimo cosa sta accadendo. Vedi un dito, farsi spazio tra le rovine e guadagnare cielo. Far diventare vita un semplice foro di luce. Pietre spostarsi lentamente, cadere di lato. Potresti aiutarla, ma non lo fai, ognuno deve farcela da solo a uscire dalle sue rovine. Così attendi, fiducioso.
Vedi un corpo sollevarsi, vedi lei spazzarsi i vestiti strappati, contarsi le ferite, profonde, ma ferite. La vedi zoppicare come te, dalla stessa gamba, fare due passi avanti, tentennare un po’. La vedi immobile sulle gambe, intimorita da un’andatura che sa di non poter sostenere.
Poi si volta, ti vede, e sorride. E tu all’improvviso comprendi che il senso dello spazio che c’è tra le rovine è quel sorriso, il sorriso di lei che è sopravvissuta come te a questa catastrofe. Si avvicina, tu ti alzi in piedi malconcio. Vi incontrate a metà strada, che è sempre il punto migliore. Lei tiene in mano una pietra dalla forma piuttosto regolare, tu senza accorgertene hai in mano la stessa cosa.
Lei si china, siete a pochi metri dalle macerie. Tu fai lo stesso, nonostante il dolore lancinante alla caviglia. Il silenzio è irreale e fecondo. Iniziate a scavare a mani nude, uno accanto all’altro, con dovizia.
Non ve lo siete detto ancora ma quando la buca sarà sufficientemente profonda poserete quelle due pietre una accanto all’altra, laggiù, a significare desiderio, a significare ricostruzione.
Roberto