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L’imbarazzo della scelta

Potevo lasciar perdere, potevo insistere, potevo fare finta di nulla. Potevo dedicarmi alla gioia, solo a quella, e scansare il dolore come fosse un lebbroso, patetico.

C’è chi lo fa. C’è chi si divincola, senza lasciarsi travolgere mai, da niente, da nessuno, restando sempre a distanza dalle fiamme, dai riflettori, da ciò che è importante. Pelle di marmo, occhi di vetro, cuore chissà. C’è chi vive a pochi metri dalla vita e gli sembra quello vivere. Starsene così, privo di coinvolgimenti, a contemplare, criticare, giudicare i coinvolgimenti altrui, e le altrui debolezze, le altrui priorità, le altrui scelte. Potevo farlo, e magari sarei stato più felice.

Sicuramente sarei passato inosservato. E avrei fatto parte di uno scenario indistinto, di un fondale azzurro che tutti chiamano mare, fingendo di non sapere che è stato dipinto così, che non è reale, che non puoi veramente nuotarci dentro, restare a galla e farti trasportare dalla corrente. Un mare di pesci tutti uguali, tutti identici, che nuotano perché sanno fare solo quello.

Una strada da prendere.

Potevo nuotare anch’io, così, senza pretese. Ma è l’imbarazzo della scelta che ti frega.

Sapere di poter scegliere è una condanna. E sono certo che mi capisci. Ti frega perché sentire di potersi scegliere il destino implica una scelta profonda. Implica prendere una strada, quella che più ci alletta, o che ci fa sentire meno soli.

E potevo mascherare sorrisi, ingoiare lacrime, schiaffeggiare sconosciuti per il gusto di farlo. Potevo parlare molto molto meno e passare persino la vita senza scrivere affatto. Potevo addormentarmi la sera al tramonto, e svegliarmi alle prime luci dell’alba, per non perdere nemmeno un minuto di sole. Potevo parlare al megafono e tapparmi le orecchie, o sussurrare e pretendere di essere capito. Potevo smettere di amare prima, quando ancora le lacrime si potevano contare. Potevo disegnare più sorrisi sui finestrini umidi, dimenticare più in fretta le offese stupide dette in un momento di rabbia. Potevo persino evitare di ascoltare le parole degli altri. Potevo desiderare. Ma ho scelto di avere paura, di avere paura di non farcela, di avere paura di non essere capace a diventare uomo.

Potevo ridere. Ridono tutti, maledizione. E fare finta di ridere. E fare finta di essere giusto, lineare, corretto, semplice, spontaneo. Fare finta. Quanto costa? Quanto costa non essere se stessi? È gratis, è gratis tanto quanto esserlo.

Hai ragione quando mi dici che tenere in mano il timone è impegnativo. Quando dici che dall’altra parte dell’oceano ci arriva pure il mozzo, asciugando il pontile, senza preoccuparsi minimamente di nessun aspetto della navigazione. Hai ragione, non serve saper andare per arrivare in fondo, ma io sono così. Sono malato, forse. O forse tenere il timone mi da un’ebbrezza che è inutile cercare di spiegare. Non lo so. So che non riuscirei a essere un passeggero, o un semplice mozzo sconnesso da ogni rotta.

Potevo salire pure io senza farmi troppi problemi. Che ci vuole? Mi sdraiavo laggiù, al sole, e aspettavo di arrivare. Ma quando sai di poter scegliere, non puoi prescinderle dal farlo. E ho scelto di stare qui.

Solo che penso, non ho la mente sgombra, non riesco a godermi la navigazione. Non sono così. Tu mi conosci. Ho sempre portato un sacco di gente su questa nave, ora non riesco più. Mi pesa. Mi pesano. Dunque giù da questa nave a mille nodi che è la mia vita. Provo fastidio nel pensare che l’imbarazzo della scelta è un dono innato che loro non sfruttano e questo mi fa compassione. Non si diventa amici per compassione, né amanti, né niente.

E non si diventa neppure passeggeri, per compassione. Non più.

Roberto

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