C’era UNA volta…
C’era una volta un bambino che ancora non era un bambino, prima di nascere.
Aveva solo fretta di farlo, come molti, e ansia di stupirsi di un mondo che, da là dentro, gli riusciva solo di immaginare malamente.
Scalpitava, scalciava, senza troppi problemi, senza neppure il timore di far troppo rumore, di fare male, di lasciare segni. Si muoveva così come gli veniva naturale, senza apprensioni per il contorno, senza badare al resto che non fosse quel mare liquido in cui, beato lui, non annegava.
Poi fu la vita. E lui si guardava intorno sospirando “perché” come fossero boccate d’aria fresca con cui solleticarsi i polmoni piccoli piccoli ma già desiderosi di vette. L’infanzia venne via fluida come olio su un piano inclinato, senza particolari ansie, senza particolari clamori, con una voglia stupefacente di disporsi a petto nudo, contro lo scrosciare senza sosta del mondo.
Venne iscritto dalle suore, ma dopo una settimana furono costretti a portarlo via perché le stesse suore non riuscivano a placare la sua vivacità nemmeno a bastonate. E lui coglieva ripetutamente l’occasione di quelle percosse lievi per sperimentare l’effetto di alcune parolacce apprese di fresco, che non riscuotevano gran successo nella ferrea morale delle suore.
All’asilo pubblico cominciò a fare a botte con tutti. Non saprebbe spiegare nemmeno ora, a quasi trent’anni, che diavolo aveva da alzare le mani. Forse era un modo per segnare il territorio o per far sapere chi era, dentro quelle aule colorate, a comandare davvero. Un giorno però incontrò un ragazzino che non ne volle sapere di farsi picchiare e lo malmenò sonoramente. Quella fu la prima volta che comprese come, nel dubbio, è bene non rompere le scatole a nessuno e starsene per conto proprio. Perché scontrarsi con qualcuno è soprattutto rischiare di perdere oltre che auspicarsi di vincere. Alle elementari era il primo della classe senza volerlo. Non che gli dispiacesse però proprio non faceva niente per esserlo, era qualcosa che si ritrovava, come una dote, come un incontro casuale per la strada. E dentro quei panni ci stava bene. Perché nessuno glieli aveva cuciti addosso. Si innamorava ogni giorno, e non solo di bambine, non solo di insegnanti o attrici o cantanti o eroine dei cartoni, lui ogni giorno si innamorava di tutto. Erano i suoi occhi a rimandare qualcosa di così bello da non poter resistere. Non era il mondo, no, quello era uguale per tutti.
Cresceva con sua nonna, a casa. Una nonna che sapeva cosa dire e quando dirlo e che insegnava preghiere come formule matematiche, di spalle a mescolare la pasta coi ceci. E poi c’era un prato enorme dalle parti di casa sua, dove correva sempre dietro o davanti a qualche pallone, con gli irrigatori a far da palo. La sua voce molto forte dava fastidio a molti, ma lui era bambino, ancora, e ai bambini i molti non interessano. Non è un fatto di egoismo, è un fatto di semplicità.
Sua madre aveva un negozio e dormiva poco, suo padre lavorava sempre e non dormiva quasi mai, eccetto qualche volta di giorno. Non che questo fosse indice di qualcosa, ma camminare in punta di piedi per non far rumore è qualcosa che si ricorda. Ecco spiegare quelle presenze è complesso. Una ipotesi già confermata, un lusso, una disperata paura. Lui avrebbe voluto fare moltissimo, in realtà ogni tanto scriveva poesie, e nulla più. Bravissimo in matematica, avrebbe voluto più di dieci numeri per spiegare quello che accadeva all’interno di un’operazione.
Non aveva paura del buio, ma lasciava sempre una lucina accesa di notte. Era magro magro, seguiva il calcio la domenica sera alla televisione, e aspettava la domenica mattina per andare a messa. Fu infilato nel giro dei chierichetti e divenne presto quello preferito dal parroco, il capo chierichetto, senza volerlo. Senza volerlo, nemmeno stavolta. Non che quel ruolo gli facesse schifo, o che ripudiasse quella tunica bianca e rossa, ma lui non l’avrebbe chiesto, ci era semplicemente capitato. Ogni domenica suonava le campanelle e sistemava le ampolline dell’eucaristia, poi piegava per bene il tovagliolo bianco ricamato. E poi a casa le lasagne, o la pasta al forno, le fettine panate, l’insalata russa.
Aveva un cane, che come passatempo preferito toglieva i fiori dalle aiuole. E tante passioni, già. Adorava la geografia, sapeva quasi tutte le capitali del mondo. Passava le serate d’inverno a ricalcare le cartine con la carta velina. E collezionava figurine e sorprese degli ovetti Kinder. E apriva a caso l’enciclopedia Utet e leggeva una voce, una per sera, così, tanto per farlo, anche se spesso nemmeno capiva bene di cosa di trattava.
E cominciò a girare l’Europa con la sua famiglia, imprimendosi negli occhi un sacco di posti lontani, giurando a se stesso di tornarci, un giorno, e a spese sue. E da quel momento non smette ancora di girare. Ancora non smette.
Intorno ai nove anni iniziò a frequentare la parrocchia del paese, e a giocare a calcio, per caso, come tutto ciò che fino a quel momento era capitato, e da lì, credetegli, è iniziata davvero un’altra storia.
(continua…)