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Carne al fuoco

Ho paura di avere esagerato.

Per carità, non mi lamento, no, non lo faccio, come potrei? Proprio adesso, poi, che ho ritrovato quel paio di pezzi di puzzle che cercavo da tempo, e ho ricoperto i buchi che da troppo tempo avevo lasciato indifesi. No, non mi lamento.

Attorno a me il fumo si dirada, il fumo di questi mesi e di quest’attesa, di queste calde e affannate rincorse, di queste concessioni alla memoria, di queste arrendevoli e insignificanti malinconie che hanno lasciato il freno su, senza farmi spegnere il motore.

Adesso, all’improvviso, provo pace. Come se la pace non fosse tanto uno stato d’animo, o una sensazione di benessere e di rispetto reciproco tra gli uomini e col mondo, ma un vestito, che si indossa a comando, a piacimento, all’occorrenza. Provo pace e mi chiedo cosa sia. Provo pace e avverto quanto sia stato sciocco rincorrerla, ambire ad essa con violenza, quasi fosse più necessario poter dire di stare bene, che starci davvero.

Quando è tempo, la pace invade, né un attimo prima, né un attimo dopo. La pace trova il posto che le lasciamo, occorre pulire bene, pulirsi dentro, consentirle di proliferare. È una dolcezza lenta lenta, che ha bisogno di essere percepita, che accarezza il cuore come il vento d’estate, la sera, quando afferri un bicchiere ghiacciato, e lo porgi alle labbra.

E ti basta sapere di poterlo bere, di averlo a portata di braccia, per stare già meglio. È capitato questo. Che il bicchiere era lì, ma le braccia erano troppo corte, il bicchiere troppo pesante, o vuoto, le labbra sigillate.

Mancava sempre qualcosa per poter vivere quel che si viveva.

Immaginate paesaggi ai quali manchino riferimenti. Un tramonto senza il disco rosso del sole, una vallata senza colline, o senza alberi. Una città senza una piazza. Una casa senza finestre. Ecco, mancavano riferimenti, non c’è da vergognarsi. Capita che si confondano i nord. Perché nessuno, da piccoli, ci insegna il nord. Il nord ognuno lo apprende sulla pelle, e ci mette il tempo che occorre per percepirlo, metabolizzarlo, farlo proprio. Non ci sono scadenze, né date. C’è solo una smisurata e sciocca fretta, inspiegabile, inumana, ansiosa. Un patetico sentirsi inutile, svilito da un’esistenza che non è, che non sa essere come l’abbiamo sognata.

E abbiamo fretta di essere sereni, di raggiungere la pace, di trovare una realizzazione personale. E in quest’attesa ci confondiamo la vita.

Riempiamo di aspettative i nostri progetti. E di sofferenza i nostri giorni semplici. E tutta questa carne al fuoco non cuocerà mai bene, abbiamo due mani, due occhi e un cuore solo. Non siamo stati abituati ad avere qualcosa di unico, di irripetibile, irreversibile. Viviamo, e vivere la nostra vita ci sembra l’unica vita possibile.

Dimentichiamo il valore di ciò che non ci sarà più, quando l’avremo disperso. Dunque su le maniche, al lavoro. È difficile coglierlo, ma in ogni esistenza c’è qualcosa che è di troppo. Che fa bruciare anche ciò che è buono, la carne migliore. Buttiamo via quel che disturba, prendiamo spazio su questa griglia, sistemiamo bene la brace, preoccupiamoci dei dettagli.

Preoccupiamoci della qualità, innanzitutto, che non siamo fatti per tutto, forse solo per tanto.

Roberto

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