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Disabitato

Dopo una tempesta così violenta, di una splendida città come la tua resta soltanto questo: ricordi.

Ti guardi attorno, attonito, e cerchi appigli a quel che c’era, fino a poco tempo fa, proprio lì dove adesso vedi detriti, carcasse di auto, fango. Proprio lì dove il cancello bronzeo del parco è arenato tra i cumuli di ferraglia, i motorini, i cassonetti. Non c’è più nulla.

Non c’è più niente di quel che sai ricordare. Una pezza sporca di fango passata sopra le tue strade, i tuoi vicoli, i luoghi in cui sei diventato adulto, uomo. Basta così poco? Basta davvero un temporale più battente a far cedere gli argini e dimenticare tutto? Basta davvero un misero pomeriggio, una giornata al massimo, una scheggia temporale, un granello nella sabbia della storia, per far venire tutto giù?

Alluvione (1970, Genova).

Come può capitare tutto questo? Come può capitare che la natura si ribelli in modi così violenti e azzeri l’umanità, la contaminazione umana? Come può capitare quel che i tuoi occhi adesso vedono senza capire, e perché gli occhi a volte rifiutano quel che soltanto loro possono riportare fedelmente al cuore, al cervello, alla memoria?

E come possiamo vivere, con che serenità, con che determinazione, se basta un nulla a smettere di esistere? Come si può esistere ad orologeria?

E tu cerchi appigli, già. Uno scorcio, un oggetto, qualcosa che sia rimasto illeso all’impeto della valanga. Un dettaglio da cui ripartire. Funziona così, ti hanno detto. Cerchi un petalo, una nuvola, o un semplice pezzo di terra rimasto asciutto, e lo utilizzi per crearti spazio nel cuore, per dare credito alla speranza che tutto possa tornare come lo ricordi.

In mezzo a questa tragedia sei su un piede solo. Resti in equilibrio. E non sai – non puoi saperlo – quanto ancora resisterai in questa posizione, col vento forte, l’acqua che sale sulle caviglie, l’odore di morte nelle narici. Pensi più d’una volta – e non te ne vergogni, – a quanto sarebbe semplice lasciarsi andare. Basterebbe buttarsi nel fiume di fango e farsi trascinare via, alla deriva, senza pretese, senza resistenze, senza aspettative. Un attimo, e questa fatica, queste paure, queste visioni infernali, affonderebbero insieme a tutto il resto.

Eppure non molli. Lo sai che la parte più difficile non è sopravvivere, la piena è passata e ormai il più è fatto. La parte più difficile la dovrai affrontare quando tutto questo sarà finito. Quando anche l’ultima goccia d’acqua sarà sparita. E tu sarai qui, sarai a casa, ma ti sentirai altrove. Sarà quella la sfida impossibile. Ricostruire, ricordare, immaginare com’era e riportare tutto a luce. Ti demotiva la parte di dentro. La parte del sogno, della immaginazione che si fa concretezza, mattone, muro.

Ora apri gli occhi. Dove sei? Dove diavolo sei finito? È forse il tuo letto, questo? O buon Dio, non può esser stato tutto un sogno. Era così vero, era così angosciante. Com’è possibile che quel che  hai sognato non fosse la tua città? Non era il tuo quartiere quello? E la tua quella macchina alla deriva addosso a un albero? Era tutto così reale, così coerente.

Ti alzi di scatto, finisci davanti allo specchio senza quasi rendertene conto. Ti guardi gli occhi. Te li passi addosso agli occhi come un lucido per le scarpe. Cerchi di dar loro vitalità perdute. Comprendi solo adesso che nel tuo sogno non c’era neppure un essere umano. Neppure un bambino, un passante, un extracomunitario. Nessuno. E neppure animali. Niente di vivo. E ti chiedi perché. Perché, nonostante sia pieno di “cose” umane – automobili, cancelli, motorini, oggetti d’ogni tipo – il mondo che sogni è disabitato? Perché? E se fossi tu ad essere disabitato? E se quello fosse il tuo mondo, il tuo mondo interiore, dopo le valanghe, dopo le piene, dopo gli uragani?

Ti metti di nuovo a letto. Cerchi di prendere nuovamente sonno, vuoi vedere come andrà a finire. Ma i sogni non funzionano come i film. Sei disabitato come i paesi di montagna nei giorni più rigidi, quando gli abitanti scendono a valle, per sopravvivere alle tempeste di neve. Disabitato come i vecchi porticcioli, quando muoiono gli ultimi marinai. Disabitato come città vittime di epidemie, di carestie, di bombardamenti.

E non sai come si possa ripopolare il cuore di bella gente, di begli scorci, di belle atmosfere. Quando capita nella vita vera che una città venga travolta da fiumi di fango, da terremoti, da situazioni così tragiche, c’è sempre qualcuno che fa polemica, che parla di prevenzione inesistente, di speculazione, di malapolitica, di egoismo. E poi c’è qualcun altro che parla dei giovani. Che dice che è in mano a loro il futuro, e la ricostruzione, e la voglia di cambiamento.

Tu adesso non pensi alla tua giovane età. Pensi al desiderio. E ti sembra moltissimo averne a disposizione così tanto. Ti vuoi bene. Qui è l’inferno, ma ti vuoi bene.

E il primo mattone è già posato.

Roberto

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