Meglio dirselo
Avevi gli occhi accesi, molto più dei miei, quando il poliziotto ti ha perquisita, all’ingresso dell’aeroporto. Sarà che tu hai quasi ottant’anni, io appena trenta. E io ho avuto un sacco di tempo per viaggiare, per conoscere, per vedere. Tu no.
E come funziona, allora? Chi ce li ridà tutti i luoghi che non abbiamo visto? Questo mi chiedevo, mentre un poliziotto gonfio di muscoli ti passava le mani addosso. Chi ce li dà indietro? Tu eri disorientata nella verginità delle tue sensazioni, come se da quell’aeroporto fosse possibile accedere ad altre dimensioni, non solo a luoghi di questo mondo.
Avevi fame. E io sorridevo, mentre gli occhi tuoi mangiavano tutto. E nella mente le domande non lasciavano tempo alle risposte. Erano più veloci, o più miserabili, o più inutili. Chissà.
Poi il volo, leggero. Quel finestrino, l’oblò, così piccolo per contenere il desiderio di guardare oltre, altrove. Saresti salita in piedi sulle ali, saresti corsa incontro alle porte chiuse, le avresti aperte, le avresti divelte. Ecco il mare, mamma mia, pensa a cadere qui. Poi un sospiro, ora c’è terra sotto, e ti tranquillizzi. Sarà che non sai nuotare, non hai fatto in tempo ad impararlo. E temi l’acqua, più di quella terra in mezzo alla quale hai passato la vita. Quella terra che ti ha sporcato le mani, che ti ha piegato le ginocchia e i gomiti, aperto ferite, ma mantenuto così, come adesso, limpida. Ecco le Alpi, le vedi? Guarda che belle, guarda. E quelle? Le nuvole? Sembrano panna montata.
Ti tenevi su quell’aereo, come se fosse un autobus, come se fosse una corriera arrampicata su per le tue montagne marchigiane. Cercando appigli. Con gli occhi spalancati sul mondo come spugne, come fazzoletti. Facevi tenerezza. Un bimbo davanti al suo primo mare. Un’adolescente dopo il primo amore.
Parigi era immobile. Quando abbiamo messo piede a terra mi sono chiesto se fra cinquant’anni diventerò anch’io bambino come te. Ci si torna? Voglio dire: il tempo è una parabola? Tornerò anche io a emozionarmi di un viaggio in aereo? A cogliere gli odori, i sapori, le piccole scenette di vita quotidiana colte nel caos cittadino? Tornerò anche io a desiderare di cogliere le cose nella loro primordiale semplicità senza avere in alcun modo l’ansia di possederle, scardinarle, renderle così consunte da essere inservibili?
Forse è una questione di ritmi, direbbe qualcuno. O forse di universi di valori che il tempo ha lentamente divorato. È una questione di ansia, o magari di depressione latente, o di lenti con cui si guarda il mondo. Forse di ottimismo, forse di sana ambizione. Forse di desiderio di futuro, di successo, di potere. Io non lo so cosa capita nel cuore delle persone quando sono come me, o quando invece sono come te. So che probabilmente la chiave di tutto non è in niente di tutto ciò che ho appena elencato. Sono portato a pensare che la chiave sia la semplicità con cui si vive la vita.
L’essere semplici in ogni cosa che – attenzione – non vuol dire essere stupidi, o semplicistici, o culturalmente meno preparati. Essere semplici vuol dire essere così, come te, che hai vissuto a Parigi come se stessi a casa tua, con gli stessi momenti abitudinari che ti accompagnano da una vita. Senza dimenticare il sorriso, senza temere il distacco, senza auspicare il ritorno. Semplici come te, che guardavi certe persone come fossero alieni, aprivi la bocca senza saperla più chiudere. Semplici come te, che ti sei rivolta in italiano praticamente a chiunque, dimenticando che esiste qualcun altro, che non parla come te, che non sa la tua lingua, e vive lo stesso. Vive senza conoscere quel che per te è la vita. Semplici come te che rifiuti gli estremi anche nelle cose piccole, che ti basta il secondo piano della Torre Eiffel, perché dal terzo cosa mai si potrà vedere di più dello splendore che c’è in mostra al secondo. Semplici come te, che noti i dettagli, scherzi sulle differenti abitudini degli altri. Ti godi il momento, ecco. Quello fai. Ti godi tutto ciò che sa contenere il recinto di un istante.
Siamo stati due epoche vicine, a passeggio per Parigi. Ognuno col suo passo. Ognuno con i suoi pensieri. Ognuna con le sue preoccupazioni. E mi vien da ridere. Perché il tuo passo era più convinto del mio, più deciso, più curioso, più giovane.
Ci si può assuefare alla vita? Si può essere così affollati da dimenticarsi di se stessi? Si può contenere talmente tanto caos da non saper più cogliere, carpire, comprendere quel che c’è intorno? Il caos interno può inibire la percezione dell’esterno?
Hai voluto foto, souvenir, elenchi dettagliati dei luoghi che abbiamo visto insieme. Hai voluto la possibilità di portare indietro quanta più memoria fosse possibile. Ne sei stata felice e lo sarai ancora a lungo. La felicità dovrebbe durare, avere la forza delle sanguisughe.
In questo mi frega la vita. Io non sono più felice di nulla. Ho perso il contatto con l’emotività. Non mi pungono le spine delle rose, non affogo in alto mare, non prendo la scossa dai fili scoperti, non muoio di fame, non sento freddo, non piango più, non gioisco più. L’ho capito lì. Con te che non eri come me. Che contavi i ciottoli di una strada che io vedevo a malapena.
Tu hai osservato Parigi. Hai conquistato. Sei tornata indietro arricchita di questa breve esperienza. Della tua incapacità di accettare le spinte verso l’estremo. Dei tuoi piedi saldamente a terra, del tuo pane fatto di grano e acqua, delle tue mani rugose, della tua vita di ossa doloranti e sacrifici, rinunce e privazioni.
Hai vinto, una volta in più. E tutti noi, vincitori predestinati, esperti di un qualche settore, artisti, ricchi e famosi, potenti, abbiamo perso di nuovo.
Poco prima di tornare, ho notato una cartolina che mi ha fatto fare una riflessione. Raffigurava la Torre Eiffel in diversi momenti della sua costruzione. Mi sono chiesto dove vanno a finire i vari noi stessi che attraversiamo prima di diventare quel che siamo oggi. Quei momenti esatti della nostra storia che nessuno può ricordare, eccetto noi. Forse li conteniamo. Come capita alla Torre Eiffel siamo il risultato di vari passaggi, di vari momenti esatti che ci fanno stare in equilibrio e diventare quel che siamo quando il mondo viene a visitarci. Solo che noi non togliamo mai il cartello con scritto “Lavori in corso”. Nessuno ci potrà mai vedere come un’opera finita. Siamo sempre un cantiere.
Non fa parte della natura degli esseri umani essere completi. Non finiamo mai. Siamo Torri Eiffel in eterna costruzione. Ma forse questa corsa alla “costruzione” di noi stessi, questa folle attenzione a ogni mirabile sciocchezza, ci rende molto meno vivi e spontanei (e sereni) di quanto non foste voi. Cinquant’anni fa.
Capire è mezzo cambiare.
Così forse non servirà a niente, ma tutto questo è meglio dirselo.
Roberto