Il tempo migliore di ciascuno
Abbiamo avuto tutto.
Siamo i figli del benessere, i nipoti del boom, e non abbiamo conosciuto soste nel nostro processo di crescita, acculturamento, maturità. È stata una gara stravinta la nostra vita, fino ad oggi, senza intoppi. È stata una galoppata trionfante. E adesso siamo uomini.
Cazzo, che si fa? Si può decidere a tavolino la vita? Come a dire: ero bambino, sono diventato uomo, e adesso viene il bello?
Ricordo una sensazione esatta, che avevo quando ero poco più che ragazzino. E mi sembra pertinente, in questo periodo di caos emotivo e disordine percettivo globale, tirarla in ballo, e condividerla. Mi guardavo intorno, quando il mondo non mi riguardava più di tanto, quando arrivavo a malapena al tavolino del salone, o strimpellavo la chitarra come uno squilibrato. Mi guardavo intorno, ascoltavo i grandi, e quello di cui parlavano mi sembrava la vita. Dicevano sempre qualcosa che io non capivo, e nei loro discorsi ricorreva un passato che non poteva appartenermi e che avvertivo lontanissimo. La loro giovinezza, i loro ricordi, le loro abitudini, tutto quello che riempiva la loro memoria e le loro emozioni, sembrava avere una dignità infinita. E quel loro passato era il migliore possibile, l’unico in cui poteva accadere quel che loro mirabilmente raccontavano.
Io ero fuori tempo. Non per mia scelta, certo, ma la sensazione di cui parlavo era esattamente questa. Essere fuori dal tempo migliore. Essere venuto al mondo troppo tardi, dopo i Beatles, dopo la conquista della Luna, i pantaloni larghi, Woodstock, dopo Freddy Mercury, i Mondiali dell’82, gli anni ’70, dopo il mito americano, le città che si popolavano, i primi quiz televisivi visti tutti assieme attorno alla tv che scaldava più di un fuoco. E la musica disco, e Baglioni coi capelli lunghi, e De Andrè, e Battisti, e Guccini e De Gregori. Roma senza periferie. Cinecittà. Ricerche per la scuola fatte sull’enciclopedia, Fantozzi, 90° minuto.
Ero fuori da tutto questo. E loro ne parlavano. E io mi sentivo di appartenere a tutt’altro, a un mondo meno importante, una serie B dell’esistenza nella quale mi ritrovavo senza demeriti.
Come chi arriva al cinema quando il film è cominciato, e ci mette un’ora per capire quel che è stato detto nei cinque minuti iniziali in cui non c’era. Un dialogo fondamentale, una premessa sostanziale. Ecco, sono entrato, era tutto buio, e mi sono seduto lo stesso. E ho ascoltato. E ho avuto voglia di capire. E non ci ho messo un’ora per capire cos’era successo in quei cazzo di cinque minuti iniziali, ci ho messo trent’anni. Trent’anni pieni.
Da quel vagito, da quella corsia, da quelle prime urla ho aspettato trent’anni. Ho guardato i visi intorno, cercando di sorprendere qualche sensazione. Cos’è successo in quel tempo in cui non c’ero? Ho smesso di chiedermelo presto, quando il tempo della mia vita ha preso il predominio sulla vita raccontata da altri. Ho smesso di chiedere, di aspettare, di cercare di capire, e ho iniziato a vivere il tempo mio. Vedevo i ragazzi più grandi, i trentenni, trovare lavoro, un lavoro vero, che li identificava. E li sentivo parlare di comprare una casa e fare dei figli. E raccontavano di mangiate di carne alla brace vicino a un fiumiciattolo una domenica di primavera.
Ho avuto paura di tante cose, ho temuto le malattie, le rapine, gli incidenti. Eppure non ho mai pensato di morire di fame, di non poter avere ciò che desideravo. Sono cresciuto con garbo, senza fretta, senza urgenze, con le tappe stabilite spesso da altri. Mi sono impegnato a rispettarle talvolta con estrema attenzione, talvolta per semplice senso del dovere.
Ho visto tanti scaffali di centri commerciali e tante di quelle sale giochi, e poi quelle sale giochi sono diventate consolle tridimensionali che hanno riempito i salotti ei pomeriggi, proiettando su televisori sempre più grandi e sempre più fini le avventure di una qualche altra realtà in cui ho sognato di esistere.
Ho imparato a leggere sulle pagine dei fumetti, a scrivere lettere al primo amore che ha sposato un altro e ha già due figli. Ho messo la panna sul gelato quando non costava nulla. E prendevo una pizzetta rossa, tonda, prima di entrare a scuola. E facevo righe in mezzo al banco, per delimitare i movimenti, per dire che di qua era zona mia, di là fai pure come ti pare. Schizzavo via, alla campanella. E nascondevo i giornaletti porno dietro i termosifoni, ce li passavamo come reliquie, da un amico all’altro, finché non tornavano da noi in condizioni pietose. E sognavamo su quelle pagine, di avere una donna come quelle, sempre pronte, sempre nude.
Sognavamo una moto, una giacca di pelle, un bar tipo Happy Days in cui fare i fighi e fischiare alle donne. Sentivamo parlare della guerra, dei sacrifici, e tutto quello di cui i nostri nonni parlavano con naturalezza, tra un modo di dire e l’altro. Non conoscevamo tanti proverbi, i nostri nonni sì, e ce ne hanno detti a tonnellate. Ma erano parole per noi. Solo quelle. Ci ubriacavamo di venerdì, andavamo a ballare il sabato, vedevamo le partite in diretta la domenica, sdraiati sul divano. Avremmo voluto una macchina come regalo per i diciott’anni, e il permesso di poter rientrare a qualsiasi ora.
Abbiamo imparato l’ipocrisia. Lentamente. Giorno dopo giorno. E a volte ci sarebbe piaciuto aver avuto un amico di cinquant’anni fa. Incontrarlo in aria, come due uccellini spaesati. E cinguettarci solitudini.
Giorno dopo giorno abbiamo stravolto il nostro modo di comunicare, e comunicarci emotività. Ci siamo innamorati per mail, conosciuti su web chat, intrigati sui social network. Abbiamo dimenticato i citofoni, le panchine, i visi. Abbiamo preso una scheda, l’abbiamo infilata in un cellulare, e siamo diventati quel numero lì. Ci siamo suddivisi per operatori telefonici, come fossero razze, etnie, confraternite. Il cellulare è diventato un organo, al pari del cuore, del fegato dei polmoni. Non si può uscire senza, non si può stare senza, e lo utilizziamo senza paura di disturbare, disturbando. Abbiamo imparato ad utilizzare parole nuove: privacy, bond, btp, crisi, home banking, telelavoro, free press, e migliaia di altre.
E il tempo è passato. E oggi ne posso parlare.
Oggi ho un passato anch’io. Questo qui. Ce l’ho. E ne parlo come se fosse il migliore possibile. E comprendo che forse il senso è esattamente questo. Essere re dei propri trascorsi, avere radici ben piantate per non finire lontano al primo alito di vento. Ma mi vien da ridere.
Qual è il tempo migliore di ciascuno? Quello in cui si sogna di appartenere a un passato impossibile, o quello in cui si ricorda il passato che è capitato di vivere?
Vedo i miei cugini più piccoli – e vedrò i miei figli – ascoltarmi con attenzione, rapiti dalle mie parole, come se questo mio tempo – quel passato in cui loro non potranno esserci – sia stato il migliore possibile. Il cerchio della vita? Forse. O forse sarà che abbiamo tutti un tale disperato bisogno di provare qualcosa, di emozionarci, che ci buttiamo gli uni sugli altri.
Ci scaldiamo, mescolandoci, esaurendoci, e ci divertiamo a ricordare insieme, con una certa nostalgia, il tepore di certe carezze.
Roberto