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Il limite e la ruggine

C’era una volta un vecchio fucile. Sparava.

La differenza con quel che è diventato balza agli occhi palesemente. Non spara più. Non è questione di desiderio, non è questione di incapacità, non è neppure questione di moralità – del tipo che sparava per uccidere o magari solo per divertire.

La questione è che, oggi, quel fucile non sa sparare più. Se ne sta riposto su una mensola impolverata – impolverato pure lui – e cerca di comprendere, da solo, cosa diavolo c’è nei suoi ingranaggi a non andare più. E se è davvero possibile che tutta quella polvere che quasi lo ricopre, abbia avuto la sfrontatezza di ricoprirgli anche il cuore.

Chi se lo ricorda non ha dubbi, era un piacere vederlo prendere la mira, caricare, esplodere in un boato. Chi se lo ricorda prova pena, compassione, o quel che si prova verso chi funzionava, e non funziona più. Chi se lo ricorda prova persino paura, per l’incapacità di comprendere certi declivi della vita.

Ruggine.

Ma questo forse importa poco, quel che conta è che sia lui, per primo, a sentirsi inceppato. Che se fosse solo una voce, una diceria, una sensazione altrui, cosa importerebbe? Invece se ne sta riverso su un fianco, coi proiettili ancora nel tamburo, a contenere più ricordi che polvere da sparo. Non si è guardato allo specchio. Non ne ha avuto il coraggio. Ha temuto che si potesse vedere fuori la ruggine che avvertiva dentro.

Ogni tanto qualcuno lo va a trovare. Si siede lì su quella mensola, accanto a lui, e prova a nascondere – male, francamente – lo stupore di vederlo così. Gli dice “provaci”, gli dice “sapevi sparare”, ma evidentemente le parole non riescono a diventare azioni, si fermano sulle labbra. Qualcuno, ogni tanto, prova a scuoterlo, lo accusa, arriva persino a insultarlo. Il fucile risponde poco, risponde male, risponde più che altro con dei profondi silenzi a chi – la maggior parte dei suoi interlocutori – non è mai stato fucile e non sa cosa vuol dire, all’improvviso, così, da un giorno all’altro, click, smettere di sparare e basta. Un conto è averlo fatto, anche una volta sola, – conoscere l’euforia, l’onnipotenza, il sentimento – e un conto è non sapere di cosa si stia parlando. Solo le sensazioni che conosciamo possono mancarci in un certo modo, quel modo preciso in cui mancano i polsi, gli odori, le convinzioni che avevamo in una certa stagione della vita. E poi più.

C’è qualcuno che lo compatisce pubblicamente, qualcun’altro che gli vuole bene e darebbe tutto per vederlo frizzante come un tempo, e qualcuno che è molto preoccupato per la situazione, perché ritiene sensato il rischio che non si tratti di un periodo di ruggine provvisoria, ma di uno stato di cose irreversibile. Lui accoglie tutti quanti su questa mensola impolverata, ascolta, risponde, si fa carico di responsabilità che nemmeno gli competono, si giustifica, talvolta si arrabbia e toglie persino la sicura, minacciando di sparare. Dimentica di non saperlo fare più.

Però ammetterebbe tranquillamente che i peggiori di tutti sono altri. Sono quelli che parlano senza pensare, che ripetono di capirti e comprenderti, e insistono che devi dare retta a loro se vuoi tornare a essere il fucile di un tempo. Quelli li odia.

E resta così – rifugio per molti, per altri ricordo – ad aspettare che la ruggine passi come una malattia. Perché è convinto – lo è, lo è davvero – che ci sia un limite anche alla ruggine, anche al dolore, anche allo smarrimento. Un limite oltre il quale si impazzisca, ma entro il quale si possa ancora tornare a sparare.

E aspetta, col colpo sempre in canna, di sentire un click a ritroso.

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