Scrivevo
Non capitava tutti i giorni, non ne avevo il tempo. Però capitava spesso, tempo fa. Scrivevo.
Non era un semplice rituale, neppure abitudine. Non si trattava di un passatempo, di un hobby, o di un’attitudine che possedevo e che mi consentiva di esistere nel modo più prossimo a quel che avrei voluto. Non saprei spiegare perché si scrive. Si fa e basta.
E poi non c’erano pretese, nè ambizioni estranee alla mia portata, in quel gesto eseguito con naturalezza. Scrivevo. E il resto, intorno, non aveva la stessa importanza dello scrivere. Le parole, le storie, i personaggi, i contesti, le peripezie, i colpi di scena, non avevano dignità sufficiente a turbare quell’azione di cui curavo ogni aspetto emotivo e fisico.
Scrivevo al fresco, in lieve penombra, con una luce fissa sulla tastiera, a illuminare solo le lettere e le dita. Scrivevo per lo più di notte, di giorno abbassavo le tapparelle, cercavo di dimenticare il sole. Non so bene perché. La luce turbava la scrittura. Sarebbe servita più avanti, alla fine, per leggere e rileggere quel che era venuto fuori, quasi per caso, quasi come un numerino dal sacchetto della tombola. Prima no. Prima la luce era accessorio fastidioso. Faceva chiaro sugli arabeschi delle parole che era bene tenersi stretti al petto.
Al buio, fissavo la prima riga bianca, aspettavo qualche minuto. Adoravo aspettare il silenzio. La fine di un rumore lontano, di una sirena, di un allarme. Sapevo che dopo avrei iniziato a scrivere. Era sempre così. Quel dissolversi sonoro portava con sé la gioia di tentare. Perché di quello si trattava: piccoli tentativi. Come un atleta che giorno dopo giorno allena corpo e fiato per migliorare di tante inezie significative la sua prestazione, così quel buio e quel silenzio limavano quotidianamente le mie parole.
Ogni tanto accendevo la luce e facevo di conto. Tiravo le somme di quei tentativi. Mi stupivo, talvolta, di essere io ad aver scritto quella pagina, quella riga. Molto più spesso ridevo, cancellavo, correggevo, accartocciavo il foglio in un secchio sempre pieno. Capitava così. Che non mi accontentavo, e al tempo stesso avevo paura di cercare. Era pericoloso, scoperchiavo, in serie, tutti i me stesso che avevo, alla ricerca di quello che non sapevo di contenere. Però era dolce, dolcissimo sapere tutto quello che ero e contenevo. Dolce e necessario. Un sostegno. Una stampella. Un’illusione. Uno spasso.
Scrivere era sintesi di corporeità, dimora in luoghi lontani, frequentazione di personaggi necessari alla mia realtà quotidiana. Un rifugio? Forse. O forse era un gioco semplice, inconscio. Una costruzione accurata di un’esistenza parallela, con altri amici, altre scappatoie, altre questioni a pesare sul cuore. Uscita di emergenza. Paracadute. Giubbotto antiproiettile.
Non saprei spiegare cosa conduce le dita su una tastiera. È un riflesso, una mania, una patologia. Forse è questo: una patologia. Una patologia che non fa male.
Non so cos’è successo. Scrivevo. Poi è capitato che sia guarito, o si è trattato solo di un affrancamento provvisorio dalla scrittura.
O magari mi sono illuso di guarire dal niente, e mi sono ammalato d’altro.
Roberto