Apparenza e identità
Non è facile, lo ammetto, spiegare perché in questi tempi di folle rincorsa al mostrarsi e all’esibirsi avverta improvvisamente l’esigenza di silenzio, quiete, raccoglimento.
Molti considerano alternativo o anticonformista (nell’accezione negativa e “riduttiva” del termine) togliere il proprio profilo dai social network, non partecipare alle pubbliche discussioni, twittare poco, non esprimere preferenze pubbliche, restare nella propria parte di mondo senza eccedere, senza strabordare, senza invadere.
Forse mi sembra all’improvviso semplicemente un valore. Qualcosa di davvero imprescindibile. Mi sembra molto più utile, e con maggiore garanzia di successo, occuparsi di ciò che le nostre mani possono toccare, gli occhi vedere, le orecchie ascoltare. Stare qui, nello spazio che mi è possibile, ma starci davvero. Essere presente a me stesso e agli altri. Riscoprire la dimensione del contatto, l’umano metro della condivisione reale, delle lacrime, del sorriso. Non demandarlo ad altro, o posticiparlo, o addirittura ignorarlo.
Certo, l’interesse deve restare vivo per le questioni pubbliche, per il modo di amministrare il nostro paese, per il nostro futuro, per l’ecologia. Occorre fare tutto questo in un modo vecchio ma nuovo, a cui ci stiamo lentamente disabituando. Con partecipazione critica, con struggimento magari, ma sempre nel ruolo che ci compete e che, spesso e purtroppo, è quello di attori minimamente partecipanti. Comparse che hanno la forza di intervenire nello spazio di scena che è loro concesso.
Non è questione riducibile alla contrapposizione tra visibilità estrema ed eremitaggio, o al desiderio di diventare un personaggio pubblico, di cui si parla, di cui si sa tutto, o starsene al contrario di fronte al camino della propria casa in montagna a contare i fiocchi di neve. Non è questo. E lungi da me demonizzare i social network come se fossero il male assoluto. Non lo penso. Penso che diventino negativi quando non sono supportati da una chiara identità.
Insomma, la questione la considero in termini diversi. La vedo appunto come una contrapposizione tra apparenza e identità.
Da una parte, ciò che c’è intorno, un magma al quale è impossibile star dietro, spesso colmo di inutili stupidaggini da salotto, di post sulle abitudini culinarie di tizio e caio, di mi piace come televoti al concorrente preferito del grande fratello, un eccesso informativo che non sappiamo gestire, né sarebbe auspicabile lo fossimo. Un indistinto e incessante rumore di fondo, al quale ci si abitua presto, che è caratterizzato dalla continuità e non dalla precisione né dalla profondità. È un serbatoio infinito di niente. Distrae. Distoglie. Priva dell’attenzione e della curiosità che va riservata alle cose vere, reali, vive. Ci fa sentire attori di una vita che diventa spettacolo, da mostrare a tutti, nella finta e triste consapevolezza che agli altri interessi di noi e di tutto ciò che ci riguarda. Siamo tutti membri dello star system, tutti protagonisti di qualcosa di luminoso, di interessante, di musicale. Non è così, ma ci sembra. E lo raccontiamo continuamente come una serie tv che non puntata perché i suoi fans si rivolterebbe nelle piazze e negli studi della televisione. E invece il pubblico non c’è. Non ci sono spettatori. Recitiamo in un teatro vuoto. E tutto ciò che siamo si svilisce.
Dall’altra parte, c’è il privilegio della propria persona. Il silenzio. L’ascolto. La consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si può fare o dire senza risultati banali, ridondanti, inutilmente sciocchi. Bisognerebbe pensare a questo prima di fotografarsi il pranzo, o il nuovo paio di scarpe, o le unghie disegnate. Bisognerebbe chiedersi: interessano a qualcuno le mie mutande nuove? Bisognerebbe pensare che dietro a quel rumore di fondo non c’è nulla, assolutamente nulla, se non la sciocca presunzione di farne parte ed esserne in qualche modo frammento fondativo. Bisognerebbe insegnare l’ascolto. Bisognerebbe, in ultimo ma non per ultimo, concedere a se stessi il lusso di qualcuno a cui regalarsi a pieno, qualcuno, non tutti. Non siamo fatti per appartenere a tutti. Siamo fatti per appartenere a qualcuno. Soprattutto ai noi stessi. Siamo fatti per costruire la nostra identità, darci un nome, afferrare al volo le cose, abbracciarci.
Qualcuno ha detto: “non possiamo non realizzare ciò per cui siamo nati”. Non c’è scelta. E questo dovrebbe restituire pace.
Senza la smania di mostrarsi per ciò che quasi sempre non si è, si inizia lentamente a disintossicarsi dalla propria immagine distorta, alimentata da un pubblico che non esiste ma che creiamo per esibirci, e si respira. Si inciampa nelle persone senza averle avvisate, ci si citofona (lo so, è assurdo), ci si parla, ci si racconta veramente. Ed è lì che rinascono i rapporti. Quando ci si incontra e non so chi sei stato dall’ultima volta che ti ho visto. Non ho bacheche di riferimento, album digitali, calendari. E te lo chiedo. E parliamo. E mi sorridi. E diventa uno scambio di vita, una condivisione, un rapporto. Diventiamo vivi, non cementificati dentro banalità alterate.
Nell’ultimo mese ho risposto più spesso alla domanda “perché ti sei tolto da Facebook?”, che alla domanda “come stai?”. E questa amara realtà mi è sembrata un’ottima conferma alla mia scelta. Ho utilizzato il tempo che dedicavo a Facebook per leggere, per scrivere, per vedermi con alcune persone che non vedevo da tempo.
Averlo fatto senza alcuna minima nostalgia per il tempo che utilizzavo altrimenti, mi ha ulteriormente convinto che era tempo mal utilizzato.
Ah, dimenticavo. Vi do la risposta alla domanda che avrei voluto mi faceste. Sto meglio.