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Quando torna

Ho da poco dato all’editore il mio secondo romanzo.

Quando torna.

Ho avuto un rapporto strano con questo testo. Molto strano.
L’ho iniziato tre anni fa. Un giorno così. Mi venne in mente un’idea confusa: un vecchio camminava da solo su un viale in autunno. Pensai che stava ricordando la sua gioventù. Quale gioventù, cosa c’era in quella gioventù, perchè fosse solo, perchè aveva quel passo così ciondolante, sono alcuni dei dettagli che ho compreso solo poi.
Dopo averlo iniziato, l’ho dimenticato in un cassetto per mesi. Ho appuntato su mille fogli volanti ciò che avrei voluto divenisse, l’ho continuato a singhiozzi, l’ho abbandonato e ho bussato di nuovo a quella porta. Ho preteso attenzione. Ho conosciuto i personaggi lentamente, uno ad uno, come se fossero miei amici.
Li ho amati e odiati, ho condiviso le loro scelte e le ho aspramente criticate. Ho dato loro consigli, ho aspettato che venisse fuori qualcosa, qualcosa che valesse la pena di raccontare.

Fernando (questo il nome del protagonista) è entrato nella mia vita come una persona importante. In punta di piedi ma senza indietreggiare mai. Mi capitava di parlarci d’amore ad un livello di intimità che mi faceva spavento. Poi, qualche settimana fa, una luce. Il finale. Ho visto il finale di questa storia. Ho visto L’ultima pagina, l’ultima riga.
Ho compreso che spettava a me raccontarla. Perchè Fernando me lo chiedeva in tutti i modi possibili. Ho ripreso dove avevo lasciato, ho reso tutto coerente o quasi, ho continuato a scrivere di quell’amore che mi aveva fatto compagnia per così tanto.
E’ stata dura in questo momento della mia vita.
E sono felice di esserci riuscito, nonostante tutto. Nonostante molte forze sono occupate da altre parti, nonostante la mia normale voglia di raccontare sia affaticata.

Ci sarà tempo per stabilirne il valore. Per capirne il potere emozionale. Uscirà nel prossimo maggio.
Ora un po’ di riposo letterario, per lo meno il riposo dalla scrittura. La scrittura che ti svuota, che ti dà tonalità, che ti appaga in maniera indescrivibile, appunto. E ti lascia quell’epidermico piacere di aver concluso un lavoro e al tempo stesso averlo concluso a dovere. In attesa di proporlo. Ti lascia quella sensazione di aver scritto ciò che volevi. Ciò che potevi. Ciò che dovevi.

Ecco, la sensazione che mi domina è questa. Ho detto ciò che dovevo.

Roberto

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