La raccolta
Non è il mezzo attraverso cui passano le storie a essere importante, ma le storie stesse, qualsiasi forma prendano. – N. Ammaniti
L’idea è semplice: indossare un paio di vecchi jeans, una camicia logora, un casco con una luce al centro della fronte e scendere nei cunicoli del sentimento. Farsi strada attraverso i fori più stretti, oltrepassare i valichi più impervi, giù, giù, sempre di più. Senza paura – o senza darne a vedere. Sudare, soffrire, togliersi continuamente il dolore e la polvere dagli occhi, farsi carico di sé, come bagaglio, come uomo infermo, come neonato. Portarsi a fondo, dentro la fonte degli impulsi. Là dove nascono, là dove crescono e diventano continuamente qualcos’altro. Là dove c’è il coraggio di chiamarli per nome, di distenderli su un tavolo come pasta per la pizza e condirli come più ci sta a cuore. Là dove poi, talvolta, cambiano. Diventano riconoscenze, diventano brutte copie, diventano qualcosa che ha un nome senza averne l’essenza. Là, dove i sentimenti fanno la fine di tutto il resto, e capita che muoiano. E capita che si dimentichino.
Senza criteri di nessuna ragione, né ambizioni, né coraggiose aspettative. Solo per il gusto e la vocazione di raccontare storie che hanno afferrato qualcuno di quei granelli infiniti, e l’hanno chiamato vita. Arrancare nei budelli cardiaci, nelle gallerie che nemmeno noi sappiamo di contenere nel cuore, attraverso viscere sempre più cupe, strettoie insuperabili, fatica estrema. Scavando, incessantemente. Verso una meta che si ignora, e che forse non esiste. Scavando, col rischio di ritrovarsi in vicoli ciechi, temendo improvvisi cedimenti, la morte, la sepoltura, il dimenticatoio. Facendo del nostro cuore la nostra tomba.
Storie d’amore che nascono dall’ascolto e dall’osservazione. Che vogliono essere consolazione e viatico, speranza e devozione, sofferenza e inganno. Che vogliono passeggiare dentro l’emozione, raccontarne stralci, emblematiche debolezze, viltà. Che crescono con le paure, si placano con il sesso, si accontentano della misera compagnia. Attraversano le stanze rocciose del sentimento con violenza e dolcezza, senza null’altro che loro stesse, e i propri occhi, le proprie mani, le proprie orecchie.
La miniera cardiaca – che è ogni cuore – sa nascondere bene. Occorre avere pazienza e desiderio nella stessa proporzione. Essere instancabili e decisi. Calmi e coraggiosi. Avere fortuna. Saper riconoscere quand’è il momento di fermarsi, per non rischiare tutto quanto.
E noi non siamo capaci, mai.
Non esiste una miniera che non contenga ricchezza, questo non va dimenticato, nemmeno quando le dita perdono sangue, gli occhi lacrime e l’anima muore di nostalgia. Queste storie vorrebbero quel tesoro, cavarlo via, portarlo al sole, donargli la vita e il cielo, e l’acqua, e l’erba, e i fiori. Tirarlo via dalle viscere cardiache. Anche se è impossibile, ovviamente, tutto questo.
Ogni cuore è una miniera personale, che ha le sue consistenze, i suoi terremoti, e tesori dedicati solo a chi lo porta in petto. È compito di ognuno di noi andarci a fondo. È un dovere a cui siamo indistintamente chiamati. Qualcuno lo avverte, qualcuno meno. Qualcuno conta i battiti, qualcuno nemmeno si accorge del battere.
Queste storie sono prive di tali obiettivi ambiziosi, che d’amore si è già detto più di molto, probabilmente tutto. Sono semplicemente frammenti. Tentativi coscienti di ripararsi un poco e, semmai, restare intatti dopo le violente tempeste che attentano al nostro equilibrio emotivo.